
Quarantasette lettere: chiuse con la ceralacca del dolore, dal francobollo indescrivibile di un destino segnato. Quarantasette colpi al cuore che Etty Hillesum, giovane ebrea con radici borghesi piantate a Middelburg, Olanda, distribuì con stupefacente coraggio da Westerbork, prigione a cielo aperto recintata con filo spinato e lambita da un mare di lupini. Sono gli anni della Seconda guerra mondiale, dell’Europa violentata ed abbrutita da un disprezzo senza ragioni: tempi in cui gli uomini si fronteggiano sopraffacendosi, in cui alcuni, pochi, brandendo il potere spezzano gambe e vite di molti altri, donne, uomini, vecchi, malati, bambini. Etty fa parte del secondo gruppo: consapevole ma non rassegnata, serenamente. Inviata in quel campo di smistamento nei pressi di Assen, in Olanda, come membro del Consiglio Ebraico, vi consumò poi gli ultimi mesi di una luminosa esistenza, dispensando parole e conforto, pacchi di viveri e amicizia. Queste lettere, scritte da un mittente divenuto polvere per ordini superiori, destinate ad amici rimasti oltre la cortina della prigionia, sono porte aperte su di un universo mostruoso, da cui “non si riesce a scrivere”, in cui “c’è fango, talmente tanto fango che da qualche parte fra le costole si deve proprio possedere un gran sole interiore”: dove convogli di treni merci arrivano di notte, vuoti, per ripartire carichi il giorno dopo, e le misere baracche ospitano un’umanità dolente ed umiliata. Da cui solo Etty avrebbe potuto spedire al mondo ultime parole come queste: “Abbiamo lasciato il campo cantando”.
Lettere 1942-1943 è uno di quei libri da maneggiare con cura: così sottile al tatto, e così incredibilmente denso per l’animo, che una sola lettura è poca cosa, incapace di cogliere, conservandolo, tutto quanto Etty Hillesum vi ha seminato con pazienza. Etty non fu una letterata, per quanto il dono della parola brilli sulla pagina, qui come nel Diario (pubblicato sempre da Adelphi nel 1985): fu, piuttosto, una donna “normale”, che inciampò nell’amaro caso di portare addosso la colpa di un’appartenenza religiosa. E fu, allo stesso tempo, una donna “speciale”, che non volle mai fuggire davanti ad una fine certa, tragica, ineluttabile: “condivideremo onestamente il freddo e il buio e la minestra di piselli e il filo spinato, e forse sapremo anche sopportare insieme ogni cosa”. Le lettere, inviate da Westerbork e Amsterdam tra l’agosto del 1942 e il settembre del 1943, prima della partenza per Auschwitz con i genitori e il fratello, portano fino a noi il vento macabro dell'esistenza condotta in un campo nazista, ma lo fanno sorprendendoci per forza, onestà, amore per quella stessa sorte che accettò senza mai farsi trascinare nell’abisso: avendo compreso, lei ebrea, che da una cinica ed insensata ferocia era stata fatta vittima, come “ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo renda ancora più inospitale”. Queste Lettere sono fiori rari, delicati, cresciuti in un'amara serra in cui la voce di Etty, sempre misurata, mai carica di rabbia, velata di dolcezza anche sull'orlo della disperazione, commuove e toglie il fiato: alla fine par quasi che si sia noi, lettori moderni, così come i destinatari delle missive, ad avere bisogno di quel tenue filo con un aldilà terreno, delle sue parole magnificamente sagge, cariche di comprensione. Per farsi invadere da una simile ricchezza interiore, trasparente come acqua pura, occorrerà solo tacere, ed ascoltare la splendida Etty: “Perciò vi raccomando: rimanete al vostro posto di guardia se ne avete già uno dentro di voi, e per favore non rattristatevi né disperatevi per me, non c'è motivo”.
Lettere 1942-1943 è uno di quei libri da maneggiare con cura: così sottile al tatto, e così incredibilmente denso per l’animo, che una sola lettura è poca cosa, incapace di cogliere, conservandolo, tutto quanto Etty Hillesum vi ha seminato con pazienza. Etty non fu una letterata, per quanto il dono della parola brilli sulla pagina, qui come nel Diario (pubblicato sempre da Adelphi nel 1985): fu, piuttosto, una donna “normale”, che inciampò nell’amaro caso di portare addosso la colpa di un’appartenenza religiosa. E fu, allo stesso tempo, una donna “speciale”, che non volle mai fuggire davanti ad una fine certa, tragica, ineluttabile: “condivideremo onestamente il freddo e il buio e la minestra di piselli e il filo spinato, e forse sapremo anche sopportare insieme ogni cosa”. Le lettere, inviate da Westerbork e Amsterdam tra l’agosto del 1942 e il settembre del 1943, prima della partenza per Auschwitz con i genitori e il fratello, portano fino a noi il vento macabro dell'esistenza condotta in un campo nazista, ma lo fanno sorprendendoci per forza, onestà, amore per quella stessa sorte che accettò senza mai farsi trascinare nell’abisso: avendo compreso, lei ebrea, che da una cinica ed insensata ferocia era stata fatta vittima, come “ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo renda ancora più inospitale”. Queste Lettere sono fiori rari, delicati, cresciuti in un'amara serra in cui la voce di Etty, sempre misurata, mai carica di rabbia, velata di dolcezza anche sull'orlo della disperazione, commuove e toglie il fiato: alla fine par quasi che si sia noi, lettori moderni, così come i destinatari delle missive, ad avere bisogno di quel tenue filo con un aldilà terreno, delle sue parole magnificamente sagge, cariche di comprensione. Per farsi invadere da una simile ricchezza interiore, trasparente come acqua pura, occorrerà solo tacere, ed ascoltare la splendida Etty: “Perciò vi raccomando: rimanete al vostro posto di guardia se ne avete già uno dentro di voi, e per favore non rattristatevi né disperatevi per me, non c'è motivo”.