Massone, fascista, violento, orangista. Cocainomane, alcolista e amante del sesso a pagamento e dei film pornografici. Possibilmente senza stalloni negri, che gli farebbero tornare in mente il caso Wufrie. Questo è il protagonista de Il lercio, epiteto azzeccatissimo che descrive alla grande l’anima scissa e lurida del personaggio. Come se questi aggettivi non bastassero a qualificare Bruce Robertson come il peggiore dei personaggi mai creati da Irvine Welsh, si noti che rappresenta l’antitesi rispetto a tutti i “buoni” delle sue altre opere, che si distinguono per le loro simpatie socialiste e indipendentiste, oltre che per la fede cattolica e il tifo sfegatato per gli Hibs, rivali dei detestati Hearts. Il lercio è quindi il peggio del peggio, la quintessenza di un’umanità perversa e deviata. Il romanzo a prima vista sembra rappresentare un’eccezione nella produzione welshiana, dato che l’unico narratore in sostanza è Robertson. Non è proprio così, perché a volte interviene una voce interiore, che altro non è che il verme solitario che si pasce nelle sue viscere. La tenia ha la funzione vitale di aprire uno squarcio sul non detto, con dei flashback e delle digressioni che narrano gli abusi, le violenze e le umiliazioni che ha subito in gioventù soprattutto a opera del padre. Una vita di soprusi lo ha trasformato per sempre, rendendolo un mostro capace di tutto per raggiungere l’anelato traguardo della realizzazione professionale (come molti altri personaggi di Welsh). Questa trovata spiazzante fa capire quanto lo scrittore scozzese sia potenzialmente in possesso di risorse narrative infinite, e con Il lercio arriva a tratteggiare il protagonista come meglio non si potrebbe, toccando una delle tante vette della sua carriera. Dal romanzo è stato tratto il film Filth del 2013, per la regia di Jon S. Baird con James McAvoy nel ruolo del poliziotto corrotto. Ennesima prova di quanto la scrittura allucinata e i dialoghi taglienti di Welsh ben si prestino a delle trasposizioni cinematografiche.