Il seminarista è seduto di fronte a lui. Lo scruta soppesandolo in quei pantaloni larghi a quadretti e il berretto calato sugli occhi. Lo scruta e lo ascolta in quell'incessante monologo che Yannick Nasnyniack, detto João il Rosso, ha deciso di riservare proprio a lui, non per discolparsi - sa perfettamente che i giudici hanno già deciso la sua condanna e che da li non uscirà più - ma per raccontare la sua verità, perché non può certo essere una sentenza a stabilire la durata della sua vita. E João ne ha da raccontare, fin dalla sua infanzia dura, passata nei campi a sognare di poter un giorno andare al di là di quelle montagne aspre che nascondono il paesino dove è nato da papà russo e mamma tedesca. E poi finalmente il sogno di lasciare quelle montagne e la piantagione e andare a Porto Alegre per studiare e imparare la vita e magari a sognare una carriera sui campi di calcio, perché tutti gli dicevano che era bravino, ma poi una gamba rotta lo aveva riportato alla realtà. E così, finita l'università era tornato nell'entroterra e s'era immediatamente trovato un impiego come docente di educazione fisica, oltre che allenatore della locale Irapuã Esporte Clube di Linha Anharetã, finché complice un figlio inatteso e la richiesta crescente di manodopera brasiliana per pulire stalle in Svizzera che prometteva guadagni d'oro, non aveva deciso di mollare un’altra volta tutto e partire, andando fatalmente incontro al suo destino...