Oslo. Il corpulento commissario di mezza età Kjell Bonsaksen lavora in polizia dal 1978, sta andando in pensione, si trasferirà con la moglie in Provenza, non lontano dall’unico figlio e dai due nipotini. Per caso incontra Jonas Abrahamsem, legge rassegnato tormento nei suoi occhi; nel 2004 lo aveva fatto accusare, incriminare e condannare (a dodici anni) per omicidio pur non essendo del tutto convinto fosse colpevole, è il solo sassolino che sente nelle scarpe da lavoro; così decide di consegnare a Henrik Holme il gonfio raccoglitore ad anelli del caso chiuso e gli chiede di dare un’occhiata. Henrik è ormai giovane e famoso, pur timido e pieno di tic, reduce dal fantastico successo ottenuto nel ridurre la devastazione di un attentato terroristico e nell’arrestarne i responsabili (ora sotto processo); da 5 anni in polizia, continua a lavorare a casi irrisolti, ormai da due insieme alla mitica pragmatica Hanne Wilhelmsen, bloccata su una sedia a rotelle e sempre più scontrosa sarcastica caustica (salvo che con la moglie matematica musulmana Nefis e la loro figlia dodicenne Ida). Hanne lo ascolta con stima e rispetto ma pensa ad altro, ha un suo tarlo presente. Si sarebbe appena suicidata la malvagia Iselin Havørn (blogger di destra con uno pseudonimo da poco scoperto) e Hanne non riesce a crederci: era una donna forte con enorme autostima, credeva di svolgere una guerra santa xenofoba e non dubitava mai, “nessuno si toglie la vita soltanto perché passa un momento sgradevole”. Entrambi sono “non” casi, là potrebbe essere suicidio, qui chissà come dovrebbe non esserlo, nessuno potrebbe e dovrebbe preoccuparsene. Fortunatamente se ne occupano, con la solita perspicacia e un aiuto reciproco…
L’ottima scrittrice norvegese Anne Holt (Larvik, 1958), laureata in legge, giornalista dal 1984, avvocato dal 1994, ministro della giustizia nel biennio 1996-97, ha pubblicato complessivamente quasi una ventina di gialli, questo (doloroso e stupendo) è il decimo della serie Wilhelmsen, il primo uscì nel 1993. Considerate le vicissitudini affettive e professionali di Hanne, ormai i protagonisti sono due, il solitario Henrik va assolutamente promosso, lui che ha trent’anni e non ha mai fatto sesso, esile e insicuro. La narrazione è ancora in terza varia al passato, tanti accanto a loro, fra cui Kejll, Jonas (il tormento è la sua seconda vita, dopo la morte della figlia in un casuale incidente), Maria (moglie di Iselin). I due poliziotti procedono senza alcuna autorizzazione o competenza formale, oltretutto le vicende sono chiuse e separate. Poi tutti d’improvviso iniziano a preoccuparsi perché viene pure rapita una bambina di tre anni, Hedda: la madre è famosa, il nonno ha vinto al lotto, i fili si moltiplicano e s’ingarbugliano. Non ci si può congratulare per ogni condanna (da cui il titolo italiano). Il romanzo è avvincente, gestito con maestria fra passato recente e presente convulso di tre settimane. L’autrice riesce a offrirci riflessioni informate e acute rispetto al suicidio, a Breivnik, alla destra che investe sulla paura, alla normale omosessualità, alla articolata genitorialità. Negli appartamenti norvegesi ci si toglie le scarpe all’ingresso, come forse è noto (e utile). Segnalo la risata sui gialli con almeno due casi apparentemente diversi e realmente intrecciati, a pag. 191. E le trousse delle compagnie aeree con tutto l’occorrente per la toilette, a pag. 371. Jazz e Grisham. Nel sentirsi liberi e morti ha la sua importanza una vecchia canzone interpretata da Janis Joplin, “Me and Bobby McGee”. Vino prevalentemente rosso, questa volta.