Sembra che il poeta più romantico del mondo, Lord George Byron, sia impazzito alla vista di una ciocca di capelli biondi avvolti in una pergamena e appartenuti a Lucrezia Borgia, conservati in mezzo a un carteggio fra lei e Pietro Bembo nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, al punto da approfittare della distrazione del custode per rubarne uno (d’altronde non era nuovo a furti del genere). Ad attirare l’attenzione del poeta, più che l’appartenenza alla “divina Lucrezia”, è quel biondo dorato “tra il platino e il caramello”, che “i parrucchieri moderni chiamano biondo - fragola”. E pensare che con le moderne tecnologie se ne potrebbero sapere molte di più su di lei, a conferma o smentita di tutte le storie che aleggiano da sempre su Lucrezia Borgia e sulla sua famiglia, particolarmente esperta, da quel che si dice, sull’uso dei veleni. I Borja di Valencia (cognome che si italianizza in Borgia con Alfonso, ovvero Papa Callisto III), sono una famiglia di nobiltà non antichissima, ma di grande ricchezza: dai possedimenti di bestiame all’acquisizione di terreni, palazzi e perfino di una sfarzosa cappella di famiglia. I Borja convertono i loro poderi in grandi piantagioni di canna da zucchero, al punto da avere il monopolio del costosissimo zucchero, o “sale dolce”, come si chiamava allora, che esportavano ovunque. Ma da fazenderos, nei primi decenni del Quattrocento si trasformano fino a prendere la connotazione dei “Borgia” a noi più nota, con carriere religiose (tra papi e cardinali), grande senso della famiglia, ma soprattutto intrighi...
Ormai dei Borgia sono stranoti anche i nomi delle cameriere, figuriamoci le loro vicende, oggetto di talmente tanti libri che se ne è perso il conto. Tutto quello che era possibile sapere e capire su di loro è stato raccontato. Ma c’è qualcosa che rende questo testo speciale ed è l’ironia di cui è intriso, un modo speciale per attualizzare la storia e certo non per deridere Lucrezia e i suoi, ma per portare il Quattrocento e tutte le vite dei suoi personaggi molto più vicini ai giorni nostri. Possiamo cominciare dai titoli dei capitoli e dei paragrafi che, in apertura di libro, sono già di grande curiosità. Probabilmente, per paragrafare canzoni, proverbi, motti così a dovere, ci sarà voluto sicuramente più tempo e fantasia che per dare vita all’intero libro, ma sono già un primo elemento prezioso, capaci come sono di strappare un sorriso, contestualizzando al contempo la situazione e/o il momento, a cominciare dal furto del capello di Byron (Che finimondo per un capello biondo), fino al matrimonio di Lucrezia con lo “Sforzino” Giovanni (O marchigiano, portami via) e alla vedovanza dopo le nozze con Alfonso di Aragona (Com’è triste Lucrezia soltanto un anno dopo). E poi Chi dice nobildonna, dice nobildanno o Il diavolo veste Borgia o Don’t cry for me Ferrara. Ma tutto il testo è pieno di riferimenti con la nostra attualità e quindi c’è Whatsapp (la nostra fortuna di poter inviare messaggi in tempo reale, quando all’epoca i messaggeri facevano giorni e giorni di viaggio a cavallo) o il corrispettivo della odierna Ferragni (Isabella d’Este, “influencer” delle corti dell’epoca).