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L’intruso

lintruso

Lorenzo ha cinquant’anni e tanti consigli da dispensare, soprattutto al suo giovane compagno di cella: la vita l’ha segnato, è solo e gli resta solo il carcere. Lorenzo sente tutto il peso, fisico e psicologico, di quella condizione di isolamento, di solitudine: per questo non bisogna parlare molto, bisogna tacere e non dare spazio a fraintendimenti, cercando di non farsi travolgere dall’onda continua dei pensieri. E poi cosa sono quei libri? Per stare bene non bisogna leggere, basterebbe una partita a carte, ma in carcere non è possibile, in carcere bisogna soltanto accettare la punizione, accettare quel Purgatorio e pregare. Il suo giovane compagno è troppo acerbo per capire e si fa troppe domande, non deve farne, non deve stuzzicarlo: ecco, ancora una volta, dopo il supplizio del tintinnare delle sbarre che si chiudono, perché continua a straziarlo con altre domande? Questa volta è troppo, le guardie avranno un motivo per irrompere ancora una volta nella sua vita…

Il testo di Cesare Pavese, pur comparendo per la prima volta postumo nel 1950 sulla rivista “Rinascita” diretta da Palmiro Togliatti, il Migliore, è da retrodatare al 1937, quando lo scrittore di Santo Stefano Belbo ancora non era noto per i suoi romanzi più densi e significativi, dilettandosi per lo più in traduzioni e poesie. All’esperienza del carcere è legata una buona parte della produzione iniziale di Pavese, culminata in Lavorare stanca e Il confino: in questo breve racconto, per quanto già sono accennati carotaggi psicologici nei due personaggi, immersi in una dimensione metafisica per cui nessuno dice perché è lì, per quale grave delitto, ma alla fine non è importante, lo stile è ancora troppo acerbo ed il finale fin troppo frettoloso. Sembra più un atto unico da teatro, se non un bozzetto di un testo mai completato, però acquisisce valore per gli amanti di Pavese che vedono qui in nuce tratti e temi presenti in opere più pienamente mature e significative. Interessante e benevola la prefazione di Sergio Pent.