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L’isola delle anime

L’isola delle anime
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Finlandia, 1891. Kristina trascina i remi per tornare a casa. È stanca dopo la lunga giornata di lavoro, una giornata uguale a tutte le altre, mentre il suo amore Einari è chissà dove a far fortuna. Non tornerà più, le ha comunicato sprezzante la madre di lui, che non l’ha mai potuta soffrire, e Kristina le crede. Fuori è buio, le braccia fanno male, manca il respiro, inizia a temere di non avere le forze. Finché le viene un’idea: gettare a mare quei due fagotti che pesano così tanto sulla barca. Kristina si alza, afferra prima uno, poi l’altro, e li getta giù. L’indomani mattina, svegliandosi a casa, scopre terrorizzata che i suoi due bambini non sono nei loro letti… Quarant’anni dopo Elli fugge insieme a Morris, il grande amore che la sua ricca famiglia non accoglierà mai. Una rapina, scarse ore di sonno e cibo rubato nell’immondizia, finché la polizia li trova ma lei è troppo lenta per correre… Kristina ed Elli si guardano da lontano, un po’ in cagnesco, nell’isola-manicomio che le ospita. La prima è ormai anziana e rassegnata a morire laggiù. La seconda ha diciassette anni ed è certa di non essere pazza, la tireranno fuori di lì, mamma glielo ha promesso. Su entrambe, intorno a un viavai di donne che arrivano, scalciano, mordono, dormono e muoiono, l’infermiera Sigrid veglia e fa quel che può per essere utile...

L’isola delle anime è un luogo reale. A Själö, nell’arcipelago di Nagu, molte donne sono state internate perché povere, emarginate dalla società o clinicamente pazze. Chi non lo era, lo è diventata a causa dell’isolamento e dell’osmosi con le altre. Si facevano esperimenti, su queste donne che nessuno avrebbe reclamato, allineandosi alla pratica della ricerca di una presunta “razza pura” che stava emergendo nei Paesi confinanti. “Gli artisti vanno dove le altre persone non vogliono guardare”, ha detto Johanna Holmström in un’intervista, e dice bene. Ci accompagna con empatia nel mondo interiore di queste donne, nelle loro piccole relazioni e conquiste quotidiane, finché dimentichiamo che sono lì per una ragione. Kristina ha ucciso i suoi figli eppure tifiamo per lei, vorremmo che qualcuno la portasse via. Ci manca, quando a metà storia diventa poco più che un’ombra e la scena è tutta per Elli. Con lei è meno facile familiarizzare, è smorfiosa e antipatica, la sua giovinezza emerge a malapena in scrittura, al netto di una certa impulsività nel linguaggio. In lei sta il limite del romanzo. Il passaggio di generazione non si percepisce e l’autrice arranca, quando si tratta di far spiccare l’individualità delle sue personagge: pazienti e infermiere sembrano parlare tutte nello stesso modo, avere tutte lo stesso corpo. Lo si può giustificare, ma fino a un certo punto, solo se ci estraniamo dalla trama e le guardiamo come a emanazioni di una donna metaforica, che incarna tutte le donne che realmente hanno vissuto e sono morte laggiù.