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Little Boy Blue

Little boy blue

Estate 1943, Los Angeles. Una Ford nera percorre l’autostrada che attraversa la San Fernando Valley. Al volante c’è una donna, un’assistente sociale. Sul sedile accanto a lei siede un bambino di undici anni, Alex Hammond, e sul sedile di dietro il padre di Alex, Clem. I visi sono scuri, gli sguardi diretti fuori dall’automobile. Tutti sono in silenzio. Alex pensa a quanti tragitti uguali a quello ha fatto da quando aveva quattro anni. È a quell’età che suo padre se n’è andato di casa lasciando la madre e lui da soli. La donna è crollata, lo picchiava sempre, finché il bambino non l’ha più vista ed è iniziata per lui una serie di tribunali, case d’accoglienza, scuole militari, collegi. Ricorda vagamente risse, rabbia, rivolta: “(…) Brandelli di scene spaventose fatte di litigi e lacrime, prima dell’arrivo della polizia che veniva a mettere pace”. Ha conosciuto molti di quei posti, per il semplice fatto che si faceva – e si fa tuttora – sempre espellere dopo un po’. Si è fatto buttare fuori da metà dei collegi della California del Sud, in effetti. Ad un certo punto è ricomparso il padre: il falegname Clem – corpo esile, pelle arrossata dall’alcol e dal sole – che ad Alex vuole bene ma è costretto a tenerlo in istituto, spendendo quasi tutto il suo stipendio per pagare le rette, perché le assistenti sociali non permettono che il ragazzino stia solo in casa e lui deve lavorare e non ha familiari che possano aiutarlo. A Clem dispiace tanto per il figlio, ma anche lui dovrebbe capire e darsi una calmata, cazzo. Invece eccoci qua, per l’ennesima volta: il ragazzino seduto al suo posto freme, sembra stia per scoppiare: “Non voglio andare in quel posto”, geme. “Portami a casa, papà. Dormirò per terra, non ti darò problemi, per piacere papà, per piacere signore”. L’automobile intanto è arrivata a destinazione, ecco la Valley Home for Boys, un vasto edificio all’ombra di eucalipti, alberi del pepe e querce. Il parcheggio dell’istituto è quasi vuoto. L’assistente sociale e Clem scendono, Alex rimane ostinatamente seduto. “Vieni. Non ho alcuna intenzione di assistere a un’altra delle tue solite scenate. Scendi”. Alex non si muove. La donna dei servizi sociali assiste muta alla scena, atterrita. Clem si china nell’automobile, cerca di tirare fuori il figlio, quello si rannicchia, fa resistenza, diventa tutto rosso. Clem lo schiaffeggia, lo afferra per un piede e alla fine lo tira fuori, malgrado il ragazzino si sia avvinghiato al volante. Alex rotola sull’asfalto, col respiro ansimante rotto da singhiozzi di rabbia. Clem è tutto sudato, tremante. La direttrice della Valley Home for Boys ha osservato tutta la scena a labbra strette, perplessa. Quel ragazzino promette guai. Guai grossi…

Terzo romanzo, datato 1980, per Edward Bunker. La storia di un ragazzino sensibile, intelligente, con grandi potenzialità (e la passione per i libri d’avventura) che diventa in soli tre o quattro anni un criminale a causa di una storia familiare devastata, delle condizioni ambientali sfavorevoli, delle carenze del sistema assistenziale ed educativo, delle “cattive compagnie”, della povertà, della sfortuna. Il messaggio è semplice, diretto, manicheo, a suo modo primitivo: una volta che la vita ti fa imboccare la strada sbagliata, è molto difficile se non impossibile tornare indietro e il riscatto è quasi un’impresa epica. Quella di Bunker non è una teoria sociologica più o meno discutibile: è esperienza diretta. Fin da ragazzino infatti l’autore conobbe il disagio sociale e le difficoltà di inserimento nella società: dopo ripetute fughe, in seguito al divorzio dei genitori fu affidato ai servizi sociali, entrò in un ospedale psichiatrico a soli 11 anni e poi in riformatorio. A 14 anni fu rilasciato sulla parola ma meno di un mese dopo fu ferito con un’arma da fuoco mentre tentava di rapinare un negozio di liquori (esattamente come nel finale di Little boy blue) e fu sbattuto a San Quentin per anni. La storia di Alex – se non tutta, almeno in gran parte – è quindi anche la storia di Edward, ma non c’è solo un’urgenza autobiografica in questo romanzo: è forte infatti la denuncia di un sistema che etichetta, isola gli individui “sbagliati” e di fatto li intrappola – anche convincendoli della loro inadeguatezza – in un destino nero e senza speranza di redenzione.