
New York, 1970. Il tatuatore Paul riceve una visita dalla piccola orientale Azami proprio mentre si sta tatuando qualcosa di nuovo, là sul petto; è il muso di una tigre, una tigre trafitta da un pugnale. La sua amica Azami ha con sé dei disegni nuovissimi che vuole sottoporre al suo giudizio, perché sente di aver fatto un buon lavoro. Sta per mostrarglieli a una sola condizione: che Paul le mostri tutti i suoi tatuaggi, tutti quanti. “Non se ne parla”. Azami sta là che insiste e poi implora un tatuaggio tutto per sé. “Sei ancora troppo piccola”, niente da fare. Paul a quel punto riceve una telefonata, risponde, prende appuntamento; poi affida la bottega alla piccola Azami ed esce. “Guarderò i tuoi disegni al mio ritorno”, promette. C'è qualcuno che lo aspetta, là alla centrale di polizia. Serve di nuovo il suo talento. Stanno ricostruendo l'identikit di un aggressore. Paul ascolta bene e restituisce un ritratto esatto di un tizio che non aveva incontrato mai, poi prende e se ne va. Come se fosse riuscito letteralmente a entrare nei ricordi del suo interlocutore, per incanto, soltanto osservandolo. “È un tizio particolare. Di poche parole ma con un talento impressionante”, taglia corto l'agente. Stacco. Paul è in un museo d'arte moderna e contemporanea, immobile di fronte a una tela. Poi esce, va in un parco, si siede su una panchina e si mette al lavoro. Arrivano due teppisti a battergli qualche dollaro. Prima di pestarli come si deve, li avvisa. Fiato sprecato. “Ho la ferocia nel sangue”, pensa, mentre li vede scappare come disperati. “Sono un sogno che cammina, un sogno selvaggio, un invisibile”, si ripete. E a quel punto, come per incanto, si mette a raccontare la sua storia. Una storia iniziata negli anni Quaranta, in Russia, quando i suoi genitori, comunisti, avevano abbandonato gli States per andare a cercare fortuna a Mosca, e lui era piccolissimo. Il padre era un artista sfortunato, uno scenografo che sognava di collaborare con Sergej Ėjzenštejn. Per campare, per adesso arrotondava dando lezioni di disegno ai figli dei medici e degli scienziati russi, mentre la mamma lavorava come infermiera. En passant, il papà insegnava tutto sull'arte del disegno al piccolo Paul. Si erano accorti di essere spiati, da un po' – non se ne erano preoccupati. Sbagliavano. Si ritrovano arrestati, arrestati come spie. Non importa che siano innocenti, vanno rieducati. Vanno rieducati in un gulag. E così, dopo un viaggio interminabile e disperato, trattati letteralmente come bestie, si ritrovano in Siberia. Fin dall'arrivo, papà e mamma vengono separati, senza che Paul abbia il tempo di salutarli, e in quel preciso istante s'accorge che qualcosa in lui è morto. Viene portato all'orfanotrofio, tra i “sabotatori” e i “nemici del popolo”, e di lì a poco è proprio grazie ai suoi talenti da disegnatore se...
Originariamente apparso in bianco e nero su «Liberation» nel 2014, terza collaborazione tra il prolifico scrittore americano Jerome Charyn, classe 1937, e l'illustratore francese François Boucq, classe 1955, l'oscuro, onirico e maledetto Little Tulip è stato poi riproposto in volume a colori da Le Lombard; a ruota, sono apparse le prime edizioni italiane, una Panini Comics, 2015 e questa nuovissima Oblomov, 2021. Secondo l'esperto fumettaro Andrea Tosti («Fumettologica»), Little Tulip “si presenta come una storia di genere d’altri tempi. E se il senso complessivo di déjà-vu, cui non sfugge neanche il frettoloso e perlomeno improbabile colpo di scena finale, non rovina troppo le belle atmosfere un po’ vintage dell’opera, l’eccessivo accumulo di cliché rende in molti punti difficile appassionarsi completamente alla vicenda”. Sta di fatto che siamo dalle parti di una buona letteratura di genere, povera di spessore politico e priva di profondità, in genere, e tuttavia capace di restare a un apprezzabile livello di intrattenimento; c'è più di qualche riconoscibile vulnerabilità nel soggetto, a partire dal nullo approfondimento psicologico dei personaggi. Lascio ancora la parola all’augusto Andrea Tosti: “La vita detentiva è resa con puntiglioso dettaglio, soprattutto nei suoi aspetti più sordidi, e la tradizione dei tatuaggi carcerari russi, un vero e proprio codice che indica posizione sociale e storia dei vari membri delle gang, è raccontata, anche graficamente, con precisione filologica. Anche se la retorica del disegno come mezzo salvifico, retorica che gioca molto con il mezzo con cui la storia si presenta è un po’ tirata per le orecchie, la fascinazione dei corpi tatuati disegnati da Boucq resta intatta, così come accade, del resto, per le fisionomie scavate e sofferenti dei prigionieri”. Chiudiamo infine con qualche cenno biobibliografico. Soggetto e sceneggiatura sono di Jerome Charyn, newyorchese, originario del Bronx, apprezzato e poliedrico artista statunitense, una pronunciata inclinazione per il poliziesco; alle spalle riconoscimenti come il “Commandeur des Arts et des Lettres” nel 2002, è stato considerato dal premio Pulitzer Michael Chabon “uno dei più importanti scrittori americani”; altrove, qualcuno sul Los Angeles Times lo ha descritto come una figura “veramente singolare” nella scena letteraria nordamericana. Qui in Italia è sostanzialmente misconosciuto, per adesso. Disegni di François Boucq, artista apprezzato da talenti come Alejandro Jodorowsky, considerato erede diretto di Giraud, riconoscimenti alla carriera ricevuti tanto dal Festival di Angoulême che da Lucca; assieme, Charyn e Boucq hanno già pubblicato quattro lavori: a La moglie del mago e Bocca del diavolo sono seguiti, poco più di venti anni dopo, questo Little Tulip e il suo seguito, New York Cannibals, fresco di recentissima edizione Oblomov. “Lo stile di François e le mie parole concordano come dei gemelli”, ha scritto Charyn. More to come?