
Era molto peloso, questo abitante del Pleistocene. L’impressione che dava era quella di un uomo abbastanza tarchiato, basso e robusto. Un perfetto giocatore di rugby, si potrebbe dire. La fronte era alta, spaziosa e molto sporgente. Sotto di essa si nascondevano due orbite molto profonde in cui si muovevano agili due occhi che si possono immaginare vispi. I capelli, pochi e arruffati come la barba incolta, erano rossicci. La testa, che frontalmente poteva ricordare quella degli uomini moderni, era in realtà “grande e oblunga” - come si vedeva quando lo si guardava lateralmente. Insomma, guardandolo da vicino, si notava subito la differenza tra la sua e la nostra specie. No, anche un occhio inesperto si sarebbe reso conto che non si trova di fronte a un esemplare di Homo sapiens (come noi), bensì di Homo neanderthalensis. Ai tempi del Pleistocene, circa mezzo milione di anni fa, questo Homo dominava incontrastato tutta l’Europa, era ormai stanziale e mostrava delle significative differenze con gli altri abitanti del pianeta: lui non lo sapeva, ma quelle differenze l’avrebbero portato verso un lento e inesorabile declino. Pian piano, infatti, l’uomo di Neanderthal avrebbe iniziato un lento isolamento “geografico, e dunque genetico” che l’avrebbe inevitabilmente portato all’estinzione. Saranno degli insoliti “migranti”, provenienti dall’Africa, a ripopolare il vecchio continente e a cambiare per sempre il corso della storia. Anni dopo, ma moltissimi anni dopo, sarà un esemplare di Homo sapiens a ritrovare i primi fossili di quello che diventerà uno degli Homo più studiati e analizzati dell’antropologia degli anni successivi: è il 1856, siamo nella valle di Neander vicino Dusseldorf e il geologo e naturalista Fuhlrott è il primo a rendersi conto che quelle ossa ritrovate in un’antica caverna appartengono a un uomo molto diverso dai suoi contemporanei. L’uomo di Neanderthal ha appena fatto il proprio debutto…
Quella che compie Giorgio Manzi, professore di Antropologia a “Sapienza” – Università di Roma e pilastro della ricerca italiana e internazionale in questo campo, è un’operazione complessa e rischiosa. L’uomo di Neanderthal è forse il più pop tra gli abitanti della preistoria: è un uomo che chiunque potrebbe dire di conoscere, e non certo grazie alle brevi pagine che gli sono dedicate sui libri di scuola, quanto più per i libri e i film che su di lui sono stati prodotti. Solo chi della ricerca su questo ex abitante dei territori europei ha fatto il proprio lavoro, poteva immaginare di scrivere un testo divulgativo di questo genere. Quello di Manzi, in particolare è un libro affascinante, un saggio preciso e dettagliato. Questo non deve spaventare, però, il lettore che – all’oscuro di glaciazioni, antropologia e ritrovamenti fossili – si ritrovi tra le mani questo testo. Lo stile del professore è, infatti, riconducibile alla migliore tradizione della divulgazione scientifica che si apre al grande pubblico: i nessi logici sono chiari, sono evitati inutili formalismi ma non vengono risparmiati dati e informazioni essenziali. Insomma, sembra quasi che (proprio come nella finzione narrativa che apre ogni capitolo) un vispo esemplare di uomo di Neanderthal ci racconti passo dopo passo come doveva essere vivere su questo strano pianeta milioni di anni fa. Dal clima alla vegetazione, dalla conformazione del cranio (a quanto pare fondamentale nello studio dei nostri predecessori) fino all’organizzazione del materiale genetico: tra queste pagine si ritrovano tutte le informazioni essenziali per poter dire di conoscerlo, l’Homo neanderthalensis. E così, attraverso di lui, conoscere meglio anche se stessi e questa terra su cui poggiamo ogni giorno i nostri piedi.