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L’ultimo turno di guardia

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“Tu m’hai in custodia, è scritto. Tu, / mio solo tu. Povero tu. / Fa’ il tuo mestiere”. L’uomo che parla non ha nome, è rinchiuso in una torre. O è un ospedale? Dall’alto della sua posizione guarda la torre gemella di quella in cui si trova, così uguale “che indovinare gli angoli potrei”: “Chi esiliano i tuoi vetri? / Chi ospiti? Chi incùbi?”. L’uomo, che non dorme mai, attraverso le vetrate osserva, “Da qui, da questa laica cupola, / da questo cerchio e circo di suoni / rifratti, da qui vedo la notte”. È anziano, “Per vecchio passo nel catalogo, ma ascolta: / nessuno sarà mai di me più vecchio”, perché la sua è una vecchiezza antica, stanca, pesante di vita, esperienza, rimpianti: “L’altro che non fummo / mai ma in cui avremmo / mille volte voluto / assolverci ritorna / con sempiterno strazio dello spreco”. Pesano anche i ricordi, quelli dei giovani amori, ad esempio, che tornano a trovarlo, e lui “Carne senza carne, angelo molle” si chiede: “Come può un angelo invecchiare tanto? / Come può ‘invecchiare’?”. Nel sanatorio – o è una prigione? – l’uomo non è solo. “Tu” non ha nome neanche lui, ed è il suo silenzioso carceriere – o il suo infermiere? “Mio giovin signor, / mia guardia giurata, mio bidello”, “Nessuno ti ha insegnato ad ascoltare, / nessuno a raccontare. / Tanto quassù, parole niente”…

Alberto Rollo è una figura assai nota nell’ambiente editoriale. Classe 1951, milanese di sangue salentino per parte di padre, è stato, tra le altre cose, direttore letterario in Feltrinelli e attualmente è consulente per la narrativa italiana in Mondadori. Ha esordito come scrittore nel 2016 con il romanzo Un’educazione milanese, finalista al Premio Strega, e adesso, sempre con Manni, pubblica questo poemetto narrativo che lui preferisce definire “monologo in versi”, approdo finale dopo una lunga gestazione. Si tratta, infatti, di versi limati e levigati in ben venticinque anni, dal 1994 al 2019, sessantasei componimenti divisi in cinque sequenze, come segmenti di un’unica narrazione. Il poemetto, dal forte sapore teatrale, mette in scena un soliloquio in un fluire drammatico complesso, magmatico, denso, monologo di un Io poetico che vive in una situazione di reclusione volutamente indefinita. Il luogo, invece, la torre dalla quale l’uomo guarda il mondo continuare ad accadere – nonostante ignoriamo lui e noi dove stia andando – è riconoscibile. Rollo dice di essersi ispirato all’edificio detto dai milanesi “il Cremlino”, costruito a Città Studi negli anni Venti del secolo scorso in stile Soviet, con due torri gemelle. Dando per scontato, però, che parlare di torri gemelle è per chiunque, dopo l’11 settembre 2001, un riferimento non casuale. Ma di chi è questa voce poetica? Lo racconta lo stesso Rollo nella nota finale. “Una figura a metà fra mitologia del grande vegliardo e la fisionomia di un lungodegente” che ad un certo punto ha cominciato insistentemente a farsi sentire, “una voce che, da allora, non ha mai smesso di chiedere spazio”, “una figura ingombrante che, proprio nel suo domandare e prendere parola, imponeva, mi imponeva, una chiarità che non avevo mai conosciuto con altrettanto furore”. Alla fine degli anni Novanta, racconta ancora l’autore, il poemetto aveva già una sua compiutezza ma era ancora “materia porosa e magnetica”. È soltanto nel secolo successivo che “il vegliardo di quest’opera […] entra in scena”, dopo gli accadimenti storici che mettono fine ad un’epoca, a cominciare dalla caduta del muro. Raccontando la genesi del suo lavoro, Rollo ha detto anche in una intervista: “Questa scelta risale a tanti anni fa e coincide con l’urgenza di rispondere al vuoto di tempo che fa seguito allo spegnersi di quella che fino alla fine degli anni ’80 abbiamo chiamato Storia. Sentivo il bisogno di trovare una voce che percepisse e quindi raccontasse quello stato di immobilità”. Chi è invece il “Tu” silenzioso al quale la voce si rivolge? “Se il protagonista nella sua immensa vecchiaia è il testimone di questo tempo immobile, l’altro è il carceriere, la spia, l’infermiere, l’indifferente e muto testimone del signore ‘malato di tempo’”. Eppure, in qualche modo, si ha l’impressione che questo Tu sia un tutt’uno con l’Io, come fossero facce di una stessa medaglia e che il monologo sia assolutamente solipsistico. Nel suo esilio, la voce del vecchio racconta ricordi, poi il vento d’inverno, poi il mare – al quale sono dedicati alcuni dei versi più belli -, sempre attraverso immagini suggestive che dominano il tempo sospeso di questo soliloquio allucinato, teso, claustrofobico, un tempo in bilico tra reale e irreale, illusione e delusione, una nebulosa densa di pathos e malìa. L’urgenza, che è una cifra di questa voce, si evidenzia nell’uso frequente dell’enjambement che non dà respiro. A chi gli ha chiesto chi fossero i suoi riferimenti letterari, Alberto Rollo ha detto di considerare maestri Franco Fortini e Vittorio Sereni, che gli è stato anche amico, ma anche W.H. Auden, Philip Larkin e William De Witt Snodgrass. Evidenti sono però le suggestioni buzzatiane, ma anche del teatro di Brecht, cui appartengono alcuni dei versi – tutti bellissimi – citati prima delle diverse sezioni. Lettura certamente affascinante.