Salta al contenuto principale

Luna di miele

Luna di miele

“Un imprevisto pauroso” – pensa della situazione in cui si trova adesso don Paolo. E dire che la città non gli piace affatto, “forse perché offre troppe eccitazioni al mio cervello e troppe occasioni di peccare al pensiero”. Peccati se ne porta abbastanza sulle spalle – pensa – perché spesso “Dio mi ha messo alla prova e io ho mancato tutte le volte”. Quel giorno ha lasciato il paese “con l’animo tranquillo e quieto”, costretto a consultare il professore a Milano, per sapere se il suo male di petto sia peggiorato e diventato contagioso. Invece il dottore lo ha tranquillizzato, tutto appare stazionario; la malattia, d’altronde, gli ha regalato un avvicinamento a Dio che gli sembra di pregare con un fervore maggiore. Anche adesso, mentre si disseta in un bar, non può fare a meno di ringraziare il Signore “per l’innocente piacere di quell’acqua fresca che scende nel petto e lo rasserena”. Ad un tratto don Paolo scorge, seduto ad un tavolo, Alberto, “il marito della piccola Lena”, chiuso nel suo impermeabile chiaro, spettinato, il colletto storto e la cravatta sgualcita, sempre alto massiccio possente quanto il suo volto “giovanile, ingenuo, appena appassito dagli anni”. Nove anni prima aveva celebrato il loro matrimonio in paese; da allora per due volte era stato a trovare Lena in città, dove si erano trasferiti, ed entrambe le volte era stato ben accolto. In quella che era “forse più di una confessione”, aveva conosciuto dei particolari della loro vita coniugale che gli avevano confermato quanto grande fosse “l’abisso che separa la donna dall’uomo”, come un fisso e un mobile in contrapposizione e senza possibilità di accordo. Tutte le sere lui la desiderava e lei lo rifiutava, fino a dirgli con disprezzo “Preferisco stirare”; poi c’era stato l’episodio dei soldi che lui le aveva preso di nascosto dalla borsetta per le sigarette, quando non aveva un lavoro ed era considerato uno sfruttatore; quindi c’era stata la questione del buio che impediva ad Alberto di prendere sonno la sera e lei, infastidita invece dalla luce, lo aveva costretto a prendere il sonnifero. Gli occhi di Lena erano cambiati, adesso rilucevano di egoismo, presunzione, e dello “scettiscismo della donna di città”. E poi c’era la sua curiosità morbosa nei confronti di Eva, la sua migliore amica quando erano ragazze, che metteva a disagio don Paolo. All’improvviso, turbato dai ricordi e dall’aspetto di Alberto in quel bar, il sacerdote decide di andare a casa sua e di Lena. Non sono soltanto le scale, né la malattia a farlo arrivare affaticato e senza fiato alla porta che trova socchiusa, ma anche una certa agitazione. All’interno non gli serve troppo tempo per trovare la donna “metà sul basso letto, metà in terra, in una posizione sconcia. Gli occhi erano rovesciati, spalancati, la lingua le usciva un poco dalla bocca”. Chiama la polizia e, nonostante si senta male, abbia difficoltà a rispondere a cose coperte dal segreto della confessione e soffra imbarazzi originati dalla sua coscienza, è costretto a raccontare molto di quello che sa, ovvero dell’”incidente”, di come Alberto, prima di sposare sua moglie, fosse fidanzato con Eva, la migliore amica di Lena, quando questa aveva sedotto il giovane e gli aveva raccontato, forse fingendo, di essere rimasta incinta. Quando lo lasciano libero, don Paolo sa dove deve andare. È sicuro che Eva non “avrebbe dato ascolto al mio consiglio del giorno prima, e si sarebbe recata all’appuntamento”…

La vicenda letteraria di Giorgio Scerbanenco è abbastanza singolare. Nato a Kiev nel 1911 da madre italiana e padre ucraino (un professore di latino e greco ucciso durante la rivoluzione russa) ma vissuto a Roma dai sei mesi e poi dai sedici anni a Milano ‒ e ciò nonostante, racconta nella sua autobiografia, costantemente turbato dal sentirsi considerato straniero per via del nome, Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko, che pure aveva presto italianizzato ‒, è uno degli scrittori italiani più prolifici e versatili, la cui produzione spazia dalla fantascienza al western, al rosa, noto soprattutto per i suoi romanzi gialli e noir, cui giunge però in un secondo tempo, (tra tutti Venere privata, in cui fa la comparsa il suo personaggio più celebre Duca Lamberti) e non a caso, anzi, considerato il maestro del noir italiano, motivo per cui alla sua memoria è dedicato il più importante premio italiano per la letteratura poliziesca e noir. Scerbanenco ebbe una vita segnata da frustrazioni e infelicità e, solo dopo una infinità di altri lavori – molti dei quali lo portarono a contatto con una umanità ai margini – e aver a lungo lavorato per Rizzoli in vari ruoli – tra l’altro ha curato rubriche varie su diverse riviste, nelle quali spesso sotto pseudonimo rispondeva alla lettrici che gli scrivevano, ricavandone con tutta probabilità infiniti spunti per i suoi romanzi –, grazie a Cesare Zavattini nel 1934 finalmente esordisce con un breve racconto sulla rivista Rizzoli “Piccola”. Luna di miele è il primo romanzo che prelude alla vena più propriamente noir ed è stato pubblicato per la prima volta nel 1945 da Baldini & Castoldi e poi mai più ristampato fino ad oggi, quando La Nave di Teseo ha cominciato ad occuparsi della produzione di questo scrittore, recuperando anche molti scritti ingiustamente dimenticati, nonostante i suoi libri risultino continuamente ristampati e assai letti. Alla luce di queste considerazioni e del fatto che autori come Lucarelli e il compianto Pinketts lo abbiano spesso citato come maestro, è assolutamente inspiegabile il motivo per il quale non abbia mai ricevuto un riconoscimento accademico. Luna di miele è stato terminato nel 1944 a Coira in Svizzera, dove Scerbanenco era in esilio dal settembre 1943 con una parte della redazione del Corriere, e viveva una situazione piuttosto precaria soprattutto dal punto di vista psicologico. Solo amico a dargli conforto un prete cattolico, don Felice Menghini, che si occupava di rifugiati; a detta della figlia Cecilia che scrive una illuminante postfazione a questo romanzo breve, “è possibile che il personaggio di don Paolo volesse essere un omaggio a don Menghini, ma la cosa non riuscì molto bene, perché il sacerdote si scandalizzò”. I pensieri dell’uomo, in una specie di flusso di coscienza interrotto pochissimo da brevissime battute di dialogo, sono abbastanza arditi, sia all’interno della riflessione teologica – che occupa uno spazio notevole per raccontare in prima persona ciò che dilania la sua coscienza e i dubbi riguardo la comprensione “umana” che sente di provare nei confronti dei due amanti anche a danno della vittima – sia nella ricostruzione delle ultime ore di questa disperata, sensuale e persino erotica luna di miele di Alberto ed Eva; nome per altro nient’affatto casuale ma evocativo del peccato per eccellenza. La trama di questa storia è lineare, non contiene colpi di scena, né elementi che possano creare tensione; eppure le immagini evocate dalla mente di don Paolo sono capaci di far scaturire nel lettore un crescente senso di inquietudine, attraverso ricostruzioni angoscianti e serrate che creano un’atmosfera torbida e claustrofobica; la pulsione sessuale che sottendono poi alcune pagine è notevole già per i nostri giorni, ma all’epoca doveva risultare scandalosa. Eppure quasi mai le parole sono troppo esplicite e l’effetto ottenuto, quindi, è certamente frutto di una capacità espressiva non comune, contenuta anche solo in una breve pennellata o in qualche sfumatura suggerita. Il peccato degli amanti (identificato nell’omicidio ma soprattutto nella febbre del sesso in cui affogano il pensiero dell’ineluttabilità dell’indomani) che tormenta il prete sembra respingerlo e attirarlo ad un tempo, mentre lo racconta vivendolo con l’immaginazione; i suoi giudizi appaiono spesso nettamente sessisti, sessuofobici e nel complesso abbastanza morbosi. Ma secondo l’ottica del personaggio, l’animo degli altri tre viene scandagliato a fondo fino a che la sua personale riflessione morale e teologica lo conduce ad individuare non uno ma tre colpevoli, vittima compresa. Nel suo epistolario privato, Scerbanenco dice che Luna di miele è “il mio primo romanzo finalmente libero dalla censura fascista”, ed è questo che probabilmente rende questa lettura così intensa e originale. Per chi ama le storie nelle quali non capita quasi nulla ma, giunti alla fine, danno la sensazione di aver fatto un giro sull’ottovolante.