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L’uomo bianco

L’uomo bianco

Macerata, 3 febbraio 2018. Lupo è al volante della sua Alfa, la sua pistola Glock è nel seggiolino del passeggero. La tocca, quasi la accarezza, come a volersi sincerare della sua presenza. Se lo sapesse sua madre, del porto d’armi. La Glock, invece, gliel’hanno suggerita. È la migliore, non sbaglia un colpo. Ora ha deciso di utilizzarla con un obiettivo ben preciso: “ammazzare il negro di Pamela”. Pamela è Pamela Mastropietro, una sua concittadina (anche se viene da Roma), uccisa da una morte atroce. Aveva solo diciott’anni: si era allontanata dalla comunità di recupero per tossicodipendenti dove in quel momento era ospitata per finire nella mansarda di Innocent Oseghale, nigeriano di 29 anni. Il suo corpo viene ritrovato a pezzi in due trolley lungo una strada di campagna . Una storia orribile che gli ricorda la sua ex, viva sì, ma finita come Pamela nel labirinto della tossicodipendenza senza che lui sia riuscito a impedirlo. È per questo che Lupo non ci vede più dalla rabbia. Ma la sete di vendetta di Lupo arriva da lontano. È una vendetta contro il mondo che l’ha reso solo, è una rabbia cieca che sfoga contro il suo Paese, contro la politica, contro gli “altri”, meglio ancora se diversi, stranieri, soprattutto di un altro colore della pelle. L’ideologia fascista lo conquista fin da quando è ragazzino, si incide sulla tempia destra il simbolo nazista “dente del lupo”, sul comodino tiene il Mein Kampf. La storia di Pamela accende in lui un furore che non si è mai spento. E quel sabato esplode la sua rabbia contro due ragazzi, neri, appunto. Con Pamela non c’entrano nulla, ovviamente. Vivevano qui da anni, erano solo a mangiarsi un gelato in città. E poi ancora spari, morte. Non c’è limite a un furore cieco: conclude la sua giornata fotografandosi con un tricolore addosso e il braccio alzato. L’atto di Lupo spaventa, per la sua follia premeditata. La cronaca però ci racconta anche altre storie di ordinaria violenza e intolleranza. Torino, l’aggressione a un profugo seduto su una panchina. Alassio, un cane sguinzagliato a rincorrere una ragazzo dalla pelle scura che vende libri in spiaggia. E poi, Vibo Valentia, Soumaila Sacko, sindacalista, 29 anni, maliano, ucciso a fucilate mentre raccoglieva lamiere per coprire la baracca dove viveva. “Non era così, non lo permettevamo a noi stessi. Sciolto dai vincoli sociali, autorizzato a pensare soltanto a sé, soggetto sperimentatore di un nuovo concetto di ego-libertà a sovranità limitata, l’individuo sposta ogni volta i suoi propri limiti, autorizzato dal silenzio-assenso che lo circonda, e consuma la sua autonomia non come emancipazione, ma come licenza”…

L’uomo bianco di Ezio Mauro, giornalista, direttore del quotidiano “La Stampa” dal 1992 al 1996 e direttore de “la Repubblica” dal 1996 al 2016, è un saggio capace di dare un sonoro ceffone alla nostra coscienza, facendoci sentire un po’ tutti responsabili, un po’ tutti coinvolti per quanto ci si senta assolti, parafrasando il compianto De André. Il suo mestiere lo fa partire dai fatti di cronaca, per poi analizzare la nostra società, com’è diventata e come siamo diventati. I fatti drammatici di Macerata, la spedizione punitiva di Luca Traini dopo il terribile omicidio di Pamela Mastropietro si trasformano nella cartina tornasole in cui si riflette un Paese in cui ha preso forma un risentimento colossale che ha travolto ogni barriera, culturale e personale, sdoganando pregiudizi razziali, odio e intolleranza. Una mutazione genetica della nostra società che ci ha reso quasi imbelli di fronte a chi, dimenticando conquiste civili che hanno fatto la storia, torna a distinguere le persone per il colore della pelle. Traini è portatore di una rabbia talmente insana e talmente forte da emergere come l’apoteosi di questo fenomeno, la sua rappresentazione più tragica e emblematica. Ma l’intolleranza e la violenza strisciante albergano ormai nel discorso quotidiano e nella routine, troppe volte senza che nessuno faccia realmente qualcosa per impedirlo. Mauro racconta anche dell’uccisione di Soumaila Sacko, delle accuse social terribili lanciate al procuratore Spataro. E poi della provincia emiliana, di Gorino e delle barriere contro l’arrivo dei profughi perché “qui non c’è niente. Niente per noi che ci siamo nati: figurarsi per gli altri”, ovvero la più concreta rappresentazione della paura degli altri, di ogni corpo estraneo che possa alterare il quotidiano svolgersi delle cose. “Smuoviamo ogni giorno il limite del consentito a noi stessi: un po’ più in là. Il limite del tollerato. Ciò che fino a ieri non ci permettevamo e non concedevamo agli altri”, scrive Mauro. “Il risultato è una modificazione del quadro – potremmo dire culturale ‒ di riferimento”, sottolinea: “un passo ancora, e si rompe quel vincolo di società che aveva caratterizzato fin qui il nostro Paese”. Sta tutta qui l’analisi del momento attuale e della fase politica che stiamo vivendo. Pulsioni più forti dominano il pensiero comune e sono cavalcate da chi governa, spesso senza alcuna disintermediazione. Il senso del limite ormai si è oltrepassato, questo uno dei cardini dell’analisi di Mauro. Manzoni docet: “Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”. E allora se prima non ce lo permettevamo o non lo permettevamo, ora è tutto libero, un “vietato vietare” edizione terzo millennio e venato di odio razziale. Altro dato allarmante, queste pulsioni così primitive e ormai prive di vincoli fanno comodo, così come fa comodo la paura dell’altro e della perdita di ogni sicurezza. “Ricordati di avere paura”, è il mantra dei moderni predicatori, ci ricorda l’autore. “Ci vorrebbe la politica, che è stata concepita per colmare i vuoti, gettare i ponti, inventare soluzioni”, propone Mauro. Una speranza, un auspicio. Nel frattempo, leggere questo libro ci può far comprendere la strada in discesa che stiamo percorrendo senza freni e la necessità, in qualche modo, di mettere uno stop, di arginare questa deriva. Prima che sia troppo tardi.