
Lorenzo è il promettente rampollo di un’agiata famiglia di illustri letterati e cattedratici, destinato a seguitare per quella pista già tracciata, di studi e agiatezze, per riprodurre tale e quale lo stesso modello sociale dei suoi predecessori, ambizioso e inarrivabile per molti, ma non per lui. Eppure, c’è un ingranaggio in quell’esistenza che sin dall’infanzia inizia a girare in modo inverso, un innato impulso a restituire ciò che ha ricevuto, a mettersi all’opera affinché nella corsa della vita tutti possano posizionarsi sulla stesa linea ai blocchi di partenza. La sua scelta vocazionale, la decisione di diventare sacerdote e tutto ciò che di lì in avanti caratterizza la formidabile opera educativa compiuta da Don Milani non possono essere comprese se non andando all’origine della sua rinuncia ad una condizione di privilegio esclusivo. Da quale rivoluzione interiore si è generata una conversione così convinta, quali presupposti hanno definito il suo mandato pastorale? Di cosa si è nutrita la straordinaria determinazione con cui ha portato avanti il progetto della scuola popolare ‒ per istruire prima ancora che catechizzare ‒ e l’attenzione per i reali bisogni dei figli del popolo? Il suo motto “I care”, non di rado abusato da chi se ne è arrogato il possesso senza accettarne le implicazioni, è il distillato di quel miracolo pedagogico che il priore di Barbiana ha mostrato al mondo. Qual è il senso originale di quella frase? Che fine ha fatto la lezione di Don Lorenzo? Chi sono oggi i ragazzi di Barbiana? Sono giovani migranti, sbarcati sulle coste d’Europa in cerca di futuro, scarti della civiltà… Barbiana è finita per sempre, ma Don Milani continua a esistere, trasfigurato in altre esperienze e in chi non l’ha mai conosciuto, né sa niente di lui. In Gambia, nell’aula col pavimento in terra battuta di un povero villaggio, dove il maestro Alì insegna ai suoi alunni la lingua inglese; nel centro di recupero della ex Berlino Est, dove ha trovato sostegno Manfred, un adolescente ex tossicodipendente, figlio di una prostituta e senza padre, che porta stampati sul volto il disagio e il vuoto adolescenziale; nel convento di Pechino, dove è stato allestito un doposcuola e suor Mary e le giovani maestre volontarie si dedicano ai ragazzi che, semplicemente, sono rimasti indietro, come formichine che hanno perso la fila giusta, biglie scheggiate dal movimento incerto…
Eraldo Affinati, illuminato insegnante e scrittore, ci consegna un emozionante racconto della vita e delle opere di Don Lorenzo Milani condotto ripercorrendo le tappe dell’esistenza del priore, rincorrendo le sue orme e ricercando i frutti dei semi sparsi a distanza. Scrive nella consapevolezza che cristallizzare il messaggio lasciato dal priore è impossibile, oltraggioso costringere la portata della sua rivoluzione in mute note biografiche; ma del resto, credere che don Lorenzo non sia servito a nulla e liquefare nel mare della storia che fu la sua impronta carismatica e innovatrice sarebbe l’errore più grande. Affinati raccoglie l’eredità spirituale di Don Lorenzo, metabolizza la lezione di Lettera a una professoressa dello scrittore Don Milani e tra le righe emerge tutta la sincera passione dell’autore per il mestiere di “insegnare”, che è mettersi in gioco e lasciarsi sorprendere: “Educare significa feririsi. Bruciarsi le mani. Andare dritto dove sai che ti fa male”. Il libro è un infuso di vitalità, racchiuso da una narrazione poetica che si nutre di citazioni e di brani intensi tratti dagli scritti di Lorenzo Milani. Sorprende sin dalle prime pagine l’uso costante della seconda persona, che riesce bene a coniugare il racconto biografico con il format di un diario di viaggio esistenziale.