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L’Uomo Lupo

L’Uomo Lupo

Anni Quaranta. Larry Talbot sta tornando a casa, a Llanelli, in Galles. Nel castello di famiglia lo aspetta suo padre, ancora affranto per la recente scomparsa del fratello di Larry, John jr., ma felice di rivedere l’altro suo figlio dopo tanto tempo. Durante una passeggiata nel centro di Llanelli, Larry nota un negozio di antiquariato – del resto è difficile non notarlo, essendo uno dei pochi negozi aperti in paese – ed entra a curiosare. La commessa lo riconosce malgrado i due non si siano mai visti prima: è Gwen, la bella ex fidanzata del povero John jr., che subito tiene a precisare: “Ormai è acqua passata. Adesso sono di nuovo impegnata, non si faccia strane idee”. La ragazza mostra a Larry un bastone con il pomo d’argento, lo esorta ad acquistarlo. Il pomo raffigura un lupo, anzi un lupo mannaro, poi c’è una stella (“La stella è il simbolo che ha marchiato sul corpo e che vede apparire sulla mano delle vittime”) e alcuni versi incisi: “Anche l’uomo che ha puro il suo cuore ed ogni giorno si raccoglie in preghiera, può diventar lupo se fiorisce l’aconito, e la luna piena splende la sera”. Intanto, le strade di Llanelli si animano: è arrivata una carovana di zingari, monteranno come ogni anno le loro tende appena fuori dal paese. Larry coglie la palla al balzo e invita Gwen a uscire quella sera, magari andranno a farsi leggere i tarocchi da una zingara, per divertirsi un po’. Alle otto, puntuale, l’uomo torna davanti al negozio: trova Gwen in compagnia di un’amica, Jenny: vuole farsi leggere la mano, li accompagnerà. Larry fa buon viso a cattivo gioco e i tre si avviano a piedi, fino a giungere al buio boschetto in cui sono accampati gli zingari. Jenny fa notare ai suoi due compagni di passeggiata che l’aconito è fiorito…

Trasposizione a fumetti per un grandissimo classico horror Universal, L’Uomo Lupo diretto nel 1941 da George Waggner e interpretato da Lon Chaney jr., il film che ha creato il canone della figura del lupo mannaro al cinema – il precedente Il segreto del Tibet nel 1935 era passato sostanzialmente sotto silenzio. Strepitoso blockbuster all’epoca, il film di Waggner – rivisto oggi a quasi un secolo dall’uscita – va naturalmente contestualizzato per sceneggiatura, ritmo, effetti speciali. È lento (malgrado duri soltanto circa un’ora), buio, non manca qualche cliché razzista ma l’atmosfera cupa e minacciosa è intatta, realmente inquietante. Decidere di adattare una pellicola del genere mantenendosi rigorosamente fedeli all’originale come hanno fatto Luca Franceschini (autore anche del breve saggio in appendice) e Sergio Vanello è una scelta apprezzabile ma assai rischiosa: se decidiamo poi di trarne in particolare una graphic novel, siamo ai limiti dell’avventatezza. Difficilissimo accontentare il pubblico dei puristi (magari un po’ in là cogli anni, come il sottoscritto), quasi impossibile soddisfare il pubblico giovane, abituato a ben altri ritmi e linguaggi fumettistici. La fedeltà all’originale inoltre implica il fatto che – nella migliore delle ipotesi, si badi bene – se ne confermeranno i pregi, ma anche i difetti, cosa che mi pare di poter dire sia puntualmente accaduta. Non sempre riuscite le tavole di Vanello (in altre occasioni matita eccellente), che rincorrendo le inquadrature originali ogni tanto finiscono per perdere la strada.