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Mai sulla bocca

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Giorgio, 44 anni, lavora all’Università ed è appassionato di etnografia. Ha una moglie, un gatto, un rapporto inquietante con la madre e un amico col quale discettare di Milan e di massimi sistemi. Riesce a vendere un progetto all’Università di Scienze Umane di Busto Arsizio, una ricerca incentrata sul sesso a pagamento, sul fenomeno sociale della prostituzione. Riesce così nell’impresa che aveva sempre sognato: “farsi pagare per andare a puttane”. Gli incontri con le prostitute da intervistare si alternano alle sue vicende quotidiane, finché un giorno qualcosa cambia. La moglie Luisa gli comunica felice di essere incinta. C’è un problema: tempo addietro Giorgio aveva effettuato uno spermiogramma dal quale era risultato sterile. E questo Luisa non lo sa…

Visti i tanti punti di contatto tra autore e personaggio, forse sarebbe stato meglio evitare l’io narrante, scongiurando così il rischio di sovrapposizione tra Stefano D’Andrea e il protagonista Giorgio, figura detestabile per le considerazioni spesso odiose e banali che costellano Mai sulla bocca. Sicuramente entrambi sono innamorati del proprio eloquio, lo si percepisce dallo sfoggio di divagazioni inutili che sembrerebbero avere un intento sarcastico di scrittura brillante che tuttavia non coglie un bersaglio troppo offuscato dal costante parlarsi addosso. Il continuo e autocompiaciuto sfoggio di erudizione passa attraverso citazioni del tutto inutili nell’economia del romanzo (fermo restando che la Bolivia non è “famosa per gli Inti-Illimani”: in Bolivia c’è l’Illimani che è una montagna della cordigliera delle Ande, gli Inti-Illimani, sono un gruppo musicale cileno…). Il tutto col risultato di una prolissità estenuante che induce a contare con frequenza crescente le pagine che ci separano dalla fine. Si può sapere cosa può interessare al lettore di gelaterie preferite, dei trucchetti a basket del protagonista (ma quanto è fico, anzi “figo”, siamo a Milano, molto a Milano), dei suoi gusti alimentari, di rock band preferite, tipologie di vino, discettazioni sul Milan, divagazioni teologico-filosofiche risolte in tante pagine quanto quelle dedicate alle difficoltà di digestione della verza: ma che è? L’ennesimo, dico ennesimo equivoco figlio della comunicazione social, tra letteratura ed esibizione delle proprie abitudini minute ed opinioni che vagano a caso per lo scibile umano? Tutto pervaso da quella che sembra essere una Captatio benevolentiae del mainstream che vuole che “gli uomini sono tutti dei coglioni”, “le donne sono molto più belle degli uomini e sono più intelligenti”, “le donne sanno prendersi cura delle cose e delle persone”, “sono più mature”, “Solo le donne sono lì per gli altri: l’analista è dalla tua parte (…) l’amica ci tiene a te e ti stima (…) la collega di lavoro fa gruppo con te (eeeeh, qui si esagera!), l’infermiera ti cura…” e non proseguo con queste trite falsità che ci sentiamo ripetere da troppi anni dalla mattina alla sera. Sarebbe implicito dunque che l’analista uomo invece è lì solo per estorcerti denaro e devastarti la psiche, l’amico maschio ti sfrutta e ti detesta, il collega di lavoro mette ogni giorno gocce di antigelo nel tuo caffè e l’infermiere non vede l’ora di calpestare inosservato il tubo del tuo ossigeno. Però, però, però... c’è qualcosa di ambiguo in questo approccio: Giorgio, il protagonista, svolge un’inchiesta sulla prostituzione ma non disdegna di consumare rapporti con le “intervistate”. Eppure ritiene, lo dice lui, di “svolgere un compito socialmente utile” (abbattere quella piaga sociale che tanto lo intriga?). Sembra farlo con la stessa pruderie di quelle zitelle dei comitati moralizzatori del tempo che fu, che non vedevano l’ora di bearsi con la lettura dei rapporti sulle sconcezze da estirpare… Nel dipingersi come “sono un coglione”, anzi “siamo tutti coglioni”, cosa cerca? Un’assoluzione erga omnes per vizio di mente? Ambiguità e sovrapposizione: perché a pag. 14 la prostituta chiama il suo cliente “Stefano” come l’autore e non Giorgio come il protagonista? E dove sono le vicende degne di racconto? È il diario di un vizio orfano della penna di Kafka o Dostoevskij? La condizione di un complessato senza l’acume di un Troisi? Tutto questo considerando che la parte di “ricerca sociologica” (ma quale, ma quando mai?) sfonda portoni spalancati a partire dal reportage AAA Offresi dell’81. E anche il titolo Mai sulla bocca ci dice qualcosa di risaputo fin dalle prime inchieste pubblicate circa quarant’anni fa (40). Altra nota stonata nell’impianto: confondendo il sesso con la genitalità e la seduzione con la dazione di denaro e la prestazione meccanica a fini di lucro, vi sarebbe la pretesa di rappresentare gli uomini del Terzo millennio. Stefano D’Andrea, attraverso il suo protagonista, assurge così ad argomentazione vivente a favore degli stereotipi negativi tanto in auge sui maschi. Ma non circoscrive l’insieme matematico, ergo, sbaglia campione. Il ritratto è sui maschi che vanno a puttane, non sugli uomini: e questo è un altro paio di maniche, per non dire un altro paio di qualcos’altro che qui ci starebbe a pennello.