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Malapianta

Malapianta

Milano, 1999. Augusto Ronchi, scapolo annoiato di quarantacinque anni, è un rampollo della buona borghesia milanese. Morto il padre qualche anno addietro, affronta ora la perdita della madre Matilde, la cosiddetta colonnella, l’austera e severa guardiana – forse tiranna – del decoro formale consono a una famiglia assurta agli alti ranghi dell’imprenditoria meneghina. Augusto ha sempre subíto il peso del compito per il quale era stato generato: quello di traghettare la schiatta dei Ronchi a un livello superiore a quello del mero arricchimento economico, investito dall’attesa di diventare un grande scienziato, direttore d’orchestra, intellettuale, regista, pittore… qualsiasi cosa aggiungesse lustro intellettuale a un’ascendenza di mercanti. Ma non solo un “grande”, il “migliore” in qualsivoglia campo. Il fatto è che Augusto è sempre stato privo di talento, non è intraprendente, è fondamentalmente rinunciatario, non ha passioni, tanto che probabilmente non conosce neanche quella amorosa. Mai soddisfatto dalle donne, ambisce nelle sue fantasie, a una creatura Frankenstein, un essere composto da un insieme di qualità mai presenti contemporaneamente in un’unica persona. Ora è solo, agiato erede rimasto a contemplare una vita nella quale non ha mai deciso niente, continuando stancamente a frequentare cene tra amici esauriti dalla vita di coppia e vacanze di routine a Sankt Moritz o in barca a vela corredate da rapporti umani poco stimolanti. È una strana sensazione quella che lo attanaglia una mattina durante una visita al Cimitero Monumentale di Milano: notando un ovale di ceramica, un ritratto di donna defunta abbandonato in un cestino, prova l’impulso, accompagnato dall’emozione del proibito, di trafugarlo e portarlo con sé. Non sarà la sua ultima visita al cimitero…

È un po’ di tempo che si assiste a un fenomeno sul quale varrebbe la pena riflettere: un’editoria invasa da romanzi che sembrano generati da programmi di scrittura automatici – senza per questo essere esenti da pesanti strafalcioni tuffati in una pochezza di linguaggio avvilente – al servizio di situazioni e stereotipi da fiction, prodotti da “scrittori” di mestiere, magari definiti tali per avere all’attivo la frequentazione di quei corsi di scrittura “creativa” sempre più adagiati su improbabili standard americani. Capitano poi, come in questo caso, dei “non scrittori” di mestiere, che producono quello che è un vero e proprio romanzo a regola d’arte, scritto con un linguaggio raffinatissimo, tanto da creare uno stile personale. “Non scrittori” che probabilmente nel corso della loro esistenza hanno avuto altro da fare, elaborando le proprie capacità di narratori attraverso due elementi: leggere e vivere. Probabilmente hanno letto parecchio prima di iniziare a scrivere ed hanno vissuto abbastanza per avere qualcosa da raccontare. Malapianta, ambientato nel ’99, è un romanzo perfettamente novecentesco (è un pregio…), svevianamente introspettivo nel suo viaggio immobile verso la deriva di una mente calata in un contesto non privo di tare (quello dell’alta borghesia milanese, ma non solo) che l’autore ritrae così (siamo ad un veglione di fine anno): “Aleggiavano nei saloni, sospesi insieme al fumo delle sigarette, strati di artificiosità collosa. I travestimenti di quel carnevale non erano orgiastici, da riti a Dioniso, o drammatici, come nella tragedia greca, ma impotenti e dozzinali, una caricatura realizzata da un pittore dilettante”. Molti gli indugi sugli stati d’animo, arrovellanti le descrizioni di percezioni e pensieri, pochi e quotidiani gli accadimenti, tutti deputati ad incarnare i prodromi del solipistico millennio a venire. Una bella lettura.