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The Manhattan boss

The Manhattan boss

Santo ed Evelina sono arrivati a New York nel 1929, si sono incontrati e conosciuti sulla nave e lui l’ha corteggiata al punto che nonostante avesse solo diciannove anni ha accettato di sposarlo. Lui è un boss mafioso e in quegli anni di proibizionismo, il commercio sottobanco di alcool e droga e ovviamente il pizzo gli hanno permesso di diventare ricco. Evelina è una donna piena di grazia e di gusto, cosa che non le impedisce di gestire personalmente alcune delle attività illecite della famiglia. Anche il figlio dei due, anziché essere tenuto al riparo, almeno nell’infanzia, viene lasciato libero di impiantare un suo piccolo commercio di caramelle al whisky alla tenera età di sei anni. Gli altri due membri – sia pur esterni - della famiglia sono Antò e Giusè, da sempre al servizio della famiglia Capocci: sono le guardie del corpo (non troppo affidabili, a dire il vero) che Santo utilizza o meglio cerca di utilizzare per piccole commissioni come riscuotere il pizzo, senza alcun risultato a causa del carattere dei due, più atti a far ridere che a intimidire. Improvvisamente però, dopo una vita d’amore e d’accordo, Evelina - che è appassionata di cinema e non manca mai la matinée del giovedì - dopo aver visto Via col vento, decide che è stanca di violenza crimine e mafia e comunica a Santo che vuole divorziare...

In copertina, testualmente leggiamo: “Storia surreale di come un film degli anni ’30 cambiò la vita a una famiglia malavitosa di New York”. Surreale certamente. Anzi, a dire il vero anche sul significato di “surreale” bisognerebbe intendersi, la Treccani recita “che supera, che oltrepassa la dimensione della realtà sensibile; che esprime o evoca il mondo dell'inconscio, della vita interiore, del sogno” e qui allora di surreale non c’è assolutamente nulla, mi correggo. C’è invece un’accozzaglia di parole organizzate per “pensierini”, tipo quelli che una volta ci facevano scrivere in terza elementare. Purtroppo però, oltre alla semplicità di linguaggio - che non contenendo orrori grammaticali e sintattici potrebbe addirittura essere un punto a favore - c’è qui anche una raggelante semplicità di pensiero. È il libro perfetto da far leggere a chi vuole scrivere, per individuare tutti gli errori che si possono fare e così far capire che prima di spendere del denaro per l’autopubblicazione sarebbe bene investirlo (se proprio non si vuole più umilmente rinunciare in partenza all’impresa) per assoldare un professionista che faccia un feroce editing. Non c’è una dimensione temporale, le parole “boss mafioso” sono ripetute credo ogni quattro righe, ho provato a contarle ma ho perso il conto a pagina 50. Non si capisce (non che sia essenziale per carità) se il boss è arrivato in America da povero disperato emigrato e abbia fatto “carriera” una volta a New York o se è partito già “avvantaggiato” da un’appartenenza alla mafia in Italia. La moglie è descritta a inizio libro come una donna bella e aggraziata ma decisamente inserita all’interno della mentalità malavitosa, che si occupa anche di alcuni affari della famiglia, temuta quanto il marito. Ebbene, dopo poche pagine si presenta nello studio di lui dicendo che non ne può più di vivere nella paura e di raccogliere pezzi di cadaveri in giro per casa e asciugare sangue sui pavimenti. Ed è solo la prima delle tante – troppe, decisamente - assurdità che si susseguono fino all’ultima pagina. Mezz’ora di vita (carattere e interlinea per ipovedenti) in cui avrei potuto coccolare i gatti, leggere un buon libro, preparare la parmigiana. Sarebbe stata sicuramente più proficua.