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Manhattan Transfer

Manhattan Transfer

Anni Venti del Novecento. Bud Korpenning ciondola sul parapetto del molo mentre un traghetto vomita l’ennesimo gregge di immigrati di cui le strade di New York sono già sature. Pieni di aspettative, andranno ad impinguare l’ultimo strato della scala sociale. Gli irlandesi cattolici invisi ai protestanti che si sentono i legittimi abitanti, gli italiani invisi agli anglosassoni e agli irlandesi, gli ebrei calati, ovunque vadano, in un mondo tutto loro che non comunica con chi li ritiene “la feccia dei ghetti polacchi”... e i neri. I neri che sono già lì perché qualcuno ce li ha portati a forza, invisi a tutti. Questo Paese non è forse “il giardino delle opportunità”? Bud, che viene dalla campagna, vuole andare nel cuore di Manhattan, lì “dove accadono le cose”. Una città brulicante dove nessuno si accorge di te è quello che il ragazzo cerca. Lui che ha lasciato il proprio padre sanguinante a terra. Quel padre che ha lasciato a lui le cicatrici sulla schiena, inferte con la catena... Ed Tatcher ha appena avuto una figlia, Ellen. All’ospedale entra in confidenza con un altro neo padre, un tedesco che lo invita a bere una birra per brindare. Ed sa che sua moglie Susie non sarebbe contenta di saperlo in giro a bere ma... Santo Dio, ha appena avuto una figlia! I due uomini si fanno due giri di bevute, poi il tedesco se ne va. Lasciandogli il conto da pagare. Ed conta sconsolato le poche monete che gli sono rimaste... Emile Loustec fa il mozzo su un mercantile, è francese, ma vuole sbarcare e diventare cittadino americano. Perché “ognuno ha diritto a scegliersi la Patria che vuole”. E l’America è il posto dove un ragazzo in gamba può farsi strada. Il suo amico Congo Jack no. Vuole continuare a navigare: tornerà a NY quando ne avrà viste a sufficienza per fottere tutti e fare soldi. Emile lavorerà come cameriere a giornata: per sistemarsi dovrà legarsi alla grassa, più anziana e leggermente baffuta Madame Rigaud, proprietaria di un negozio di Delicatessen... Jimmy Herf invece sembra voler sfuggire al benessere economico: arrivato bambino a New York con la ricca madre, viene allevato dalla famiglia della zia, i Merrivales, dopo essere rimasto orfano. Studente promettente, ha un futuro assicurato nel mondo aziendale. Manda tutto all’aria: vuole fare il giornalista di denuncia. Se quello sembra essere il Paese giusto per chi cerca opportunità, sembra non essere il Paese adatto a Jimmy, che intende denunciarne le ingiustizie sociali...

Il racconto si apre con un traghetto che approda in una Manhattan il cui scenario contempla casse rotte, rifiuti, acqua verdastra, persone che si calpestano a vicenda, odori mefitici e masse umane intrise di reciproca ostilità e indifferenza. Se c’è una cosa che salta all’occhio nelle quasi 500 pagine che compongono Manhattan Transfer è la totale assenza di descrizione di un qualsivoglia elemento gradevole o rasserenante. John (Roderigo) Dos Passos, americano di origine portoghese, pubblica questo romanzo nel 1925 –ancor prima della Grande Depressione- ma sembra già intravedere la trasformazione dell’American Dream nell’incubo composto di sciami di spiantati dalle alterne vicende, solitudine, “diritto alla felicità” mutato in lotta cruenta a scapito del prossimo, violenza, ambizione e competizione spietata in nome delle quali sacrificare ogni remora. Nel suo stile iper-modernista, Dos Passos ci offre una lettura piuttosto difficile che va dipanandosi tra fine ‘800 e anni ‘20: una struttura non lineare, non scorrevole, bensì composta dall’alternarsi continuo di frammenti di esistenze e contingenze passando indistintamente dal tempo presente a quello passato. Lo fa inserendo pensieri in prima persona e dialoghi nel periodo narrativo stesso sottraendosi, come autore, al proprio ruolo di accompagnatore per il lettore. Si viene così precipitati in contesti dei quali nulla si sa, come proiettati in spezzoni situazionali carpiti da un osservatorio che può essere un bar, la scala di un condominio o una strada di quartiere, avvalendosi della tecnica letteraria “dell’obiettivo”. Il vento soffia ostile, i capelli sono appiccicaticci, le pelli bianche e lentigginose, i cibi poco appetibili, l’immondizia, il sudore che cola fastidioso sulla nuca, l’abiezione dei bassi istinti, la costante ubriachezza ostile, le case dalle facciate scrostate, gli abiti sfilacciati, le bocche sdentate... sembra il mondo di un Rain Dogs d’antan (Album, Tom Waits, 1985) o il panorama di un Taxi Driver (film, Martin Scorsese, 1976) ante litteram. Manhattan Transfer è, per alcuni versi, l’aspetto urbano e pessimista di Furore (romanzo, John Steinbeck, 1939), il volto nero di Questa Terra è la mia Terra (autobiografia di Woody Guthrie, 1943). C’è da rilevare che Dos Passos ha avuto largo anticipo rispetto ad altri autori nell’individuare le criticità della società americana; le dimenticherà tutte una volta raggiunti fama e denaro, così come avrebbe fatto uno dei suoi personaggi alla spasmodica ricerca del successo: negli anni ’50 diverrà sostenitore di quello psicopatico, alcolizzato e razzista senatore McCarthy che vedeva l’antiamericanismo da sopprimere in maniera coercitiva, dittatoriale e inquisitoria (la famigerata Caccia alle Streghe) anche nei film di Chaplin... Manhattan Transfer si presenta come una serie di ritratti impressionistici eseguiti con la gamma dei colori dell’inquietudine e della disperazione: duro, impegnativo, da riesaminare.