
La prima esecuzione non si scorda mai. Giovanni Battista Bugatti – che molti anni dopo sarebbe stato soprannominato dal popolo romano Mastro Titta, “er boja de Roma”, ma allora era solo un diciassettenne cupo e violento – infatti la ricorda molto bene: doveva impiccare e squartare in quel di Foligno un tale Nicola Gentilucci, un giovane che “tratto dalla gelosia” aveva assassinato un prete e il suo cocchiere e in seguito rapinato con violenza due frati. Giunto sul posto però Bugatti aveva trovato molte difficoltà a reperire il legname per costruire la forza ed era stato addirittura costretto ad “andare la notte a sfondare la porta d’un magazzino” per procurarselo. La mattina dell’esecuzione, due ore prima dell’alba, il condannato aveva ricevuto da un prete l’assoluzione e l’indulgenza in articulo mortis, fatto la comunione e una frugale colazione, dopodiché era stato affidato al boia “esordiente”, che come da tradizione gli aveva offerto una moneta perché dall’aldilà pregasse per la sua anima. Indossato il suo cappuccio, Bugatti aveva legato mani e braccia a Gentilucci e lo aveva condotto al patibolo assieme al corteo solenne della Confraternita della Morte, frati incappucciati che “salmodiavano in tetro tono il Miserere”. Poi lo aveva fatto salire su di una alta scala (di spalle perché non vedesse la forca) mentre lui montava su un’altra scala accanto alla prima. Giunto alla stessa altezza del condannato, gli aveva messo due cappi al collo (“una corda più grossa e più lenta, detta la corda di soccorso, la quale doveva servire se mai s’avesse a rompere la più piccola, detta mortale perché è questa che effettivamente strozza il delinquente”), poi di colpo lo aveva spinto nel vuoto saltandogli sulle spalle in modo che il peso lo strangolasse di colpo mentre il corpo faceva “parecchie eleganti piroette”. Non era finita qua. Il giovane boia – staccato il cadavere dalla corda – gli aveva spiccato la testa dal busto, spaccato con un’accetta il petto e l’addome e diviso il corpo in quattro parti “con franchezza e precisione, come avrebbe potuto fare il più esperto macellaio”, come previsto dalla legge. “(…) L’animo mio non provò emozione alcuna. Ho sempre creduto che chi pecca deve espiare; e mi è sempre sembrato conforme ai dettami della ragione e ai criteri della giustizia che chi uccide debba essere ucciso”…
Questo volume di grande formato e di grande fortuna pubblicato da Arcana nei primi anni Settanta è la riedizione di un romanzo a dispense (a sua volta di enorme successo) uscito nel 1891 per i tipi dell’editore Edoardo Perino, ex edicolante di Piazza Colonna famoso per i suoi bestseller adatti “al gusto feroce e rozzo del popolo”, come li ebbe a definire Bernardino Zapponi. L’autore di questo trionfo grand guignol è ignoto, ma molti studiosi ritengano si tratti di Ernesto Mezzabotta, lo scrittore più prolifico della scuderia di Perino. In ogni caso, l’autore ha usato come spunto un taccuino in cui il boia Giovanni Battista Bugatti annotava le “giustizie eseguite”, ritrovato da Alessandro Ademollo e pubblicato nel 1886. Secondo detto taccuino (con buona pace di Wikipedia che dà un’informazione difforme sulle prime esecuzioni trascritte) le esecuzioni effettuate da Mastro Titta – che era nato a Senigallia, nello Stato Pontificio, il 6 marzo 1779 – furono tra 1796 e 1864 ben 514: in realtà il boia ne annotò 516, ma le ultime due vanno scomputate perché i due condannati in questione vennero uno fucilato e l’altro impiccato e squartato dall’aiutante Vincenzo Balducci, che gli succedette nel ruolo. Temutissimo a Roma, dove visse un’esistenza solitaria al numero 2 di vicolo del Campanile, Bugatti non si recava mai in giro per la città e anzi gli era vietato attraversare il Tevere (donde il proverbio romano “Boia nun passa ponte”) se non per recarsi a svolgere il suo spaventoso ufficio. Freddissimo, possente e probabilmente sadico, Mastro Titta è una figura ancora molto presente nell’immaginario degli abitanti di Roma, e le sue corrusche imprese – sessantotto anni di mestiere sono un record poco invidiabile ma indiscutibile – hanno raggiunto molte parti del mondo. Persino Charles Dickens nella giornata di sabato 8 marzo 1845, mentre era di passaggio a Roma, assistette ad una esecuzione in via dei Cerchi effettuata da Mastro Titta e la raccontò nel suo libro Lettere dall’Italia. Queste “memorie del boia di Roma” non si limitano però a essere apocrife: l’ignoto autore, abile mestierante del feuilleton ottocentesco, ha lavorato di fantasia sull’elenco dei condannati alterando qua e là i dati, aggiungendo robustissime dosi di sesso, violenza e nemmeno tanto velata satira anticlericale.