
Padre e figlia raggiungono la spiaggia come ogni giorno; in una sporta a quadretti lui ha portato birre e panini. Si toglie la camicia, rimane in pantaloni neri, e si siede a bere e fumare, mentre sua figlia siede in riva all’acqua muovendo la testa in continuazione. Arrivano anche dei ragazzi: atletici, rumorosi, giovani, abbronzati. Si tuffano dalle rocce, si azzuffano, si sfidano di continuo. Uno di loro, dalle ciglia lunghe e i capelli fino alle spalle, si avvicina all’uomo. Evidentemente è incuriosito dalla ragazza, che le pare strana: si chiama Marica, gli dice il padre, ed è malata, non capisce proprio tutto quello che le si dice; è nata così. Però è capace di nuotare... L’uomo non riesce a riposare: un po’ è colpa della calura, un po’ del fatto che vicino casa sua stanno costruendo una chiesa, e gli operai fanno un sacco di rumore con le trivelle e i martelli. Chissà quando sarà finita. L’uomo tracanna almeno tre bicchierini di assenzio, pensando che appena la chiesa sarà aperta ai fedeli, anche lui ci entrerà per pregare. Intanto, il solito pappagallo si posa sul suo davanzale, lasciandoci puntualmente sopra un “ricordino”. Avrebbe chiesto al Signore di farlo schiattare, quell’uccello! Chissà da quale diavolo di gabbia era scappato... Katika e suo padre percorrono tutti i giorni la stessa via per arrivare al mercato: a Katika non piacciono le deviazioni di percorso, la rendono nervosa, e quando è nervosa continua a scorreggiare come fosse una tromba. Ha una sedia a rotelle nuova di zecca, e suo padre è ormai un asso nell’aggirare buche e dislivelli. Il fruttivendolo è sempre gentile con la ragazza, le regala sempre una mela, una pera, un’arancia, nella speranza di farla sorridere, ma Katika finisce sempre per sputarle. Suo padre entra dal fornaio, c’è sempre una fila lunghissima; lascia sua figlia fuori dal negozio, girando la sedia in modo che lei possa guardare la strada. Stai attenta, le dice. Ma in fondo, cosa potrebbe succedere?... Berta è in lutto, le è morto il padre, e l’agente gli ha suggerito Gizi. Gizi è alta, magra, finta bionda. Lo sta già aspettando nella stanza quarantadue: il bagno lì ha le piastrelle con una decorazione floreale, ma lui preferisce di gran lunga i pesci – delfini, cavallucci marini, squali – come quelli che si trovano nel bagno della trentasette. Gizi ha un’aria stralunata, sembra non stare bene. Si passa la mano nei capelli, si schiarisce la gola. Qualcosa non va? Si, effettivamente. Non ha i cappucci, li ha finiti tutti. A Berta questo, non succedeva mai...
Giornalista, romanziere, drammaturgo, poeta: László Darvasi è un autore quasi sconosciuto in Italia, ma in Ungheria è uno degli scrittori contemporanei più stimati. I racconti brevi che compongono questa raccolta sono apparsi in periodi diversi in diverse testate ungheresi, e sono stati scelti per rappresentare l’esordio italiano dell’autore; anzi, nella versione italiana abbiamo ben tre racconti in più rispetto a quella originale. Dividendo il suo libro in tre parti – Dio, Patria e Famiglia – Darvasi gioca con la triade alla base della società conservatrice, riducendola praticamente in brandelli usando, a mò di spada, la sua penna arguta e affilata, accompagnata da una macabra ironia. I suoi racconti, come lui stesso dice, sono dei brevi cortometraggi interiori: basta uno sguardo, una postura, un volto, perché la sua cinepresa mentale cominci subito a girare. I suoi personaggi sono malinconici, brutalmente reali, calati in una odierna quotidianità di provincia che non lascia molto scampo ai sogni e all’immaginazione; gente comune che ha come primo obbiettivo quello di sopravvivere per la quale la moralità, talvolta, rappresenta un vero e proprio lusso: padri soli e figli malati, anziani abbandonati al proprio destino, strozzini, ubriachi, prostitute, ladri, disertori. Darvasi non va tanto per il sottile, ma la potenza e la bellezza della sua scrittura stanno proprio nella crudeltà descrittiva: squallore, disperazione e miseria sono elementi tangibili tra le righe, nel racconto di una regione che fa dell’incertezza politica e sociale il suo tratto distintivo: “Questa regione di secolo in secolo continua ad allevare uomini impauriti. Che se anche ogni tanto cercano di alzare la testa, il giorno dopo si ritrovano con il naso sospinto nuovamente nella merda. Perché in qualsiasi momento può succedere qualsiasi cosa, questa è la loro esperienza acquisita”. Non affanniamoci a cercare chissà quale significato intrinseco in queste brevi storie: godiamoci il fotogramma, respirando l’odore di un’umanità che quasi mai sa di buono, e riesce prepotentemente a far affiorare in superficie più di un sentimento.