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Medusa

medusa

“Non ho mai versato una lacrima in vita mia. Né di tristezza, né di rabbia, né di disperazione, né di dolore – ancor meno di riso o di felicità. Nemmeno una piccolissima lacrima di coccodrillo”. Non accade perché lei sia priva di sensazioni o particolarmente stoica ma a causa di un’atrofia congenita delle ghiandole lacrimali che non permette che nei suoi occhi si formino lacrime. E questa è certo la più piccola delle tare che affliggono le due Mostruosità che ha al posto degli occhi. Ne è stata davvero consapevole quando ha realizzato che sua madre, chinandosi a rimboccarle le coperte, le copriva le palpebre con la mano; è stato allora che ha capito perché quando le pettinava i capelli folti, ribelli, intricati e squamosi, le faceva sempre ricadere la frangia davanti per nasconderle completamente il viso e poi le dava avvertimenti del tipo “Se mostri gli occhi a qualcuno, ti cucio le palpebre”. Suo padre, rettore all’università, l’ha sempre ignorata; le sue due sorelle maggiori – occhi verdi da cerbiatte e lunghi boccoli setosi – l’accusavano di avere il malocchio e di rovinare il lustro familiare. Un giorno, durante la visita al nuovo acquario, davanti alla vasca di acqua salata vedono le meduse e, tornate a casa, cominciano raccontarle ridendo quanto le assomiglino come gemelle, “Hai la testa come una campana, i capelli sono i tentacoli e gli occhi le gonadi! Dovresti stare in un acquario!”. Così Medusa è diventato il soprannome che ha soppiantato tutti gli altri, al punto che lei ha dimenticato il suo vero nome. Chiusa in casa e tranquilla soltanto al buio, Medusa passa i suoi giorni a leggere; le è permesso uscire soltanto durante i temporali ma a patto che cammini curva e a testa bassa. Un giorno, accidentalmente, la ragazzina si trova faccia a faccia con la cameriera sulla soglia di casa, quella comincia ad urlare e poi si licenzia. Dopo una settimana di attesa angosciosa, suo padre ha deciso la punizione: “Stasera te ne vai, preparati la valigia. Ti aspetto in macchina”. Nessuno ha salutato Medusa quando ha lasciato la casa dove non era felice ma si sentiva al sicuro. Oltre una fitta e oscura foresta, accanto ad un lago ghiacciato, la meta, un edificio di granito nero dalle finestre strette e poco illuminate, l’Athenaeum. “È qui che vengono rinchiusi i mostri come te” è l’unica cosa che le dice suo padre. Ad accoglierla la direttrice, una donna molto alta e magra, ossuta, completamente calva e priva di ciglia e sopracciglia, sulla mano guantata una civetta. La costringe ad aprire gli occhi ed esclama “Che orrori della natura!” e poi aggiunge che, nonostante la vocazione dell’istituto ad “accogliere bambine bandite dalla società a causa delle imperfezioni fisiche”, è difficile che quella creatura possa rimanere perché potrebbe cerare problemi con il suo aspetto. La decisione spetta ai benefattori. Di chi sono quelle tredici paia di scarpe, l’unica cosa che Medusa vede al loro cospetto? Senza guardare i suoi Aborti, fidandosi della parola della direttrice, le danno il permesso di restare come domestica per rispetto nei confronti di suo padre, a patto che lavori chinata senza guardare nessuno mai. “Astieniti dal darci tue notizie e non aspettare di riceverne di nostre”, le sibila suo padre prima di andar via. Medusa sbuffa e le si solleva il ciuffo, così per la prima volta vede da vicino gli occhi di suo padre che si riempiono di terrore fissando i suoi, poi l’uomo crolla morto a terra. “Sapevo bene cosa aveva ucciso mio padre: l’orrore d’aver visto le mie Devastazioni”…

Cosa siano “le mie Mostruosità, Abiezioni, Disgrazie, Sudicezze, Avvilimenti, Destabilità” e così via, e quindi in cosa consista la deformità che affligge i suoi occhi, Medusa, la protagonista di questo strano romanzo narrato in prima persona, lo dirà alla fine del suo terribile racconto rivolto ad un personaggio la cui identità si svelerà soltanto allora e che, nello schema del mito classico della Gorgone profondamente rivisitato, corrisponde ad un novello Perseo. Questo è l’esordio italiano della canadese francofona, del Quebec, Martine Desjardins, autrice di cinque romanzi che, in patria e nel mondo, hanno riscosso l’apprezzamento di pubblico e critica. Nell’atmosfera claustrofobica e neogotica dell’Athenaeum, un vecchio istituto circondato da un bosco cupo e da un lago sinistro infestato da meduse e depositario di terribili segreti, cresce la povera protagonista rifiutata dalla famiglia e affidata alla crudele direttrice dall’aspetto spaventoso che mantiene un sistema “educativo” privo di cultura (esiste una enorme biblioteca vietata alle ragazze) e mirato ad assecondare e soddisfare i desideri dei benefattori. Questi oscuri personaggi, che reggono la loro posizione sociale sull’ipocrisia più assoluta, sovvenzionano l’istituto in cambio di una visita mensile nelle notti di plenilunio, durante la quale possono disporre delle protette a loro piacimento nelle stanze dedicate ai giochi. Si tratta di giochi infantili ma crudeli e sadici ai quali le ragazze si sottomettono docilmente, vittime delle loro anomalie fisiche e delle tare congenite che le rendono eternamente debitrici nei confronti di chi, in qualche modo, le ha raccolte dai margini della società. Ma nel suo terribile percorso di formazione, attraverso l’accumulo di umiliazioni che crede di meritare, Medusa acquista consapevolezza crescente della propria mostruosità e, allo stesso tempo, quella del suo potere che coincide proprio con i suoi difetti, come se fossero quelli la sua vera forza; fino alla scoperta che accettazione significa anche libertà. Non c’è spazio per l’empatia, non c’è solidarietà, né pietà alcuna in questa storia, i cui personaggi sono tagliati con l’accetta perché archetipici, proprio come in un mito, ancorché moderno. E infatti si tratta, come già accennato, di una rivisitazione del mito greco di Medusa, assolutamente ribaltato e adattato ad una sorta di allegoria femminista con al centro una figura capace di affrancarsi dalla vergogna e dalla sottomissione, attraverso la conquista dell’autostima e della consapevolezza del proprio potere. Il suo sguardo uccide – come nel mito classico pietrifica – perché troppo sconvolgente; ma per alcuni, come il novello Perseo, è sorprendente e affascinante - questo, dice l’autrice, è il mistero del romanzo che cattura anche il lettore - e possiede anche il “potere” di penetrare gli abissi dell’oscurità del vero male (il lago), di guardarlo in faccia senza cedere. Il criminale di periferia, infatti, sarà colui che insegnerà a Medusa a non temere il suo stesso sguardo e scoprirlo potente per la prima volta nello specchio di cui le fa dono. Lo specchio rappresenta, appunto, la presa di coscienza di sé. Sarà anche lui un traditore, come il suo corrispettivo greco, ma grazie a quest’uomo Medusa scoprirà la propria femminilità e le potenzialità che implica. E, come nel mito greco, la sua sofferenza, ovvero il suo aspetto, simbolo di terrore e seduzione, diverrà arma feroce di rivalsa. Ecco allora che di questo romanzo si è scritto che ha come tema il capovolgimento dei rapporti di forza, che si realizza quando la consapevolezza del sé conduce al superamento della vergogna del corpo e alla liberazione dall’oppressione del potere della femminilità; quindi un libro sulla misoginia, sul ripudio della diversità, sull’ipocrisia sociale, sul male che non può che generare altro male perché quasi sempre le vittime diventano carnefici. Eppure la mostruosità del personaggio Medusa – come la sua deformità – ha un fascino crudo e raffinato, la bellezza crudele e spietata di chi, con la forza della rabbia accumulata, cerca vendetta e affrancamento dalla vergogna e dalla solitudine, fino al raggiungimento pieno del piacere. A questo proposito, Desjardins ha spiegato perché nella sua storia piacere e vergogna siano legati, sostenendo che i media impongono standard irrealistici che costringono a vergognarsi di sé e che questa “è una forma di puritanesimo che porta alla miseria sessuale. Quindi trasgredire a questa vergogna per raggiungere l’orgasmo è diventato davvero sovversivo”. In realtà, il topos classico dello sguardo femminile è il centro di un romanzo zeppo di temi e suggestioni difficili da riassumere in breve, un vero scrigno capace di offrire al lettore diverse chiavi di lettura. La scrittura assai raffinata, lo stile barocco, il linguaggio perfetto di questa storia cruda e surreale – capace di sfociare nel grottesco e persino nello splatter, pur in un equilibrio espressivo assolutamente mantenuto nell’ottima traduzione – creano una tensione tale che obbliga il lettore a voltare rapidamente pagina dopo pagina. Questa sorta di favola nera è in qualche modo una storia di iniziazione e formazione (come quasi tutte le favole), nella quale certamente un ruolo fondamentale ha una lingua ricca di neologismi, grecismi, onomatopee, quebecismi, utilizzati soprattutto per le definizioni sempre diverse con cui la protagonista indica i suoi occhi deformi. Interessante la risposta dell’autrice, in una intervista a “Venerdì di Repubblica”, quando le è stato chiesto il perché di quei nomi sempre diversi e in maiuscolo. “Volevo nominare l’innominabile e che i termini riferiti agli occhi di Medusa fossero delle ‘mostruosità’ linguistiche. Quindi ho unito barbarismi, neologismi, regionalismo del Québec, e ho aggiunto le maiuscole in modo da scioccare ancora di più il lettore”. Alla luce di tutte queste suggestioni, l’idea è che Medusa sia un romanzo così “plurale” da piacere a diverse tipologie di lettori, ma soprattutto a chiunque si interessi del complesso mondo femminile: “Io ero Medusa. L’eterno femminino. La manifestazione del caos primordiale. La distruttrice degli specchi del mondo. Non avevo più nulla da temere – né riflessi, né ombre”.