
Tra la vecchia Aurelia e Bolgheri c’è una fila di cipressi che indicano che Marina di Castagneto Carducci è vicina. Questo posto è come una bolla, all’interno della quale vigono regole e meccanismi propri, spesso dominati dalla natura: la pineta che circonda Marina di Castagneto è come se filtrasse tutto ciò che è esterno, creando un vero e proprio microcosmo. Un po’ come Macondo, la cittadina della famiglia di Cent’anni di solitudine, circondata da mangrovie, non da pini, ma caratterizzata dalla stessa impenetrabilità. Macondo diventa il centro di una società chiusa e semplice, quasi primitiva, ma che permette un’attenta analisi delle dinamiche sociali e dei ruoli di genere, consentendo anche di sovvertire la classica lettura che vede le donne Buendía come problematiche, viziate e tristi. Osservando Macondo e osservando Marina di Castagneto, la somiglianza della realtà sociale è evidente, dato che si ritrovano quelle dinamiche tipiche di realtà piccole, cosicché ognuna sembra lo specchio dell’altra. E infatti a tre “donne di carta” del romanzo di Márquez, corrispondono tre “donne di carne” di Marina di Castagneto. Úrsula Iguarán, moglie di Josè Arcadio Buendía, prima donna di Macondo, è pragmatica e decisa, dedita alla cura, ma quel tipo di cura che nei romanzi di Márquez è direttamente collegata al rito e al potere che ne deriva; un po’ come Morena, la storica ristoratrice di Marina di Castagneto, che col suo istinto materno si prende cura di chiunque in paese. Pilar Ternera, donna terrena ed erotica, sovverte ogni stereotipo delle donne Buendía, ed è speculare a Gabri, l’estetista di Marina di Castagneto, colei che sa prendersi cura dei corpi altrui come nessun altro. Remedios la bella è la pronipote di Úrsula e lei incarna la bellezza naturale, una bellezza da preservare, infatti viene tenuta rinchiusa. La sua controparte “di carne” è Iselda Fadini, una donna tanto incantevole quanto gentile, che per combattere la noia della sua prigionia domestica, passa ore a guardarsi allo specchio…
Carlotta Vagnoli è un’attivista femminista, una giornalista, una content creator e una scrittrice molto attiva e seguita sui social, dove si occupa principalmente di sensibilizzare ai temi legati alla violenza di genere. Memoria delle mie puttane allegre è il suo ultimo libro, un saggio che analizza, in modo originale (e anche un po’ provocatorio per i puristi di Márquez) il ruolo delle donne nella letteratura dello scrittore colombiano, rivalutando la loro importanza, spesso trascurata dalla critica tradizionale. C’è un fenomeno tipico dei social che Carlotta Vagnoli ritrova anche nei due paesi che cita, ovvero quello delle bolle: Macondo e Marina di Castagneto sono chiusi nel loro riverbero, senza contatti con l’esterno e la deriva ultima di questa incomunicabilità è l’estinzione. Il parallelismo è interessante perché permette di riflettere sulle dinamiche sociali comunicative e su quanto sia importante che i discorsi che si fanno sui social trovino degli interlocutori esterni alla bolla, affinché il dialogo sia fecondo. L’autrice ci mostra che sono proprio le donne, da sempre marginalizzate a favore di una visione maschiocentrica della società, ad essere i veri motori di questi “matriarcati di paese”, in cui il loro ruolo è non solo centrale, ma anche, per certi versi, salvifico. La particolarità del saggio di Carlotta Vagnoli è l’accostamento di tre personaggi di Macondo, le “donne di carta”, con tre “donne di carne”, cioè figure femminili di Marina di Castagneto, luogo dove è cresciuta. La disamina critica dell’autrice porta quindi a un sovvertimento della considerazione della donna e il titolo del libro è il primo elemento che ce lo suggerisce: non ci sono puttane tristi nell’antologia di Márquez, ma semmai c’è sempre stata una lettura pregiudiziosa e stereotipata delle donne. La lente che usa Carlotta Vagnoli, ormai esperta in questo tipo di analisi, ci aiuta a vedere le cose da un’altra prospettiva e a riscattare il carattere sfaccettato e multidimensionale delle donne del Gabo, insegnandoci anche che, cambiando prospettiva e guardando le cose senza il filtro del pregiudizio che la società ci ha sempre imposto, si può dar vita a nuove e stimolanti riflessioni, senza per forza fare torto all’eredità di Márquez, anzi, scoprendo che forse, in fin dei conti, è stato più femminista di quanto si possa pensare.