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Memorie da una casa di morti

Memorie dalla casa di morti

Metà Ottocento. La vita in Siberia è meno difficile di quanto si creda, nonostante il freddo. Piccole città da 1000-2000 abitanti, selvaggina abbondante, alcol e caviale di ottima qualità, belle ragazze, gente simpatica. È in una di queste cittadine, K., che il protagonista incontra Aleksàndr Petroviĉ Gorjànĉikov, un nobile deportato in Siberia per aver ucciso la moglie pochi mesi dopo il matrimonio in seguito a una crisi di gelosia. Costui ha da poco espiato la sua condanna a dieci anni di reclusione ma ha deciso di rimanere a vivere qui arrangiandosi dando lezioni private alle figlie di un funzionario locale, Ivàn Ivanyĉ Gvòdzikov. Gorjànĉikov è un uomo pallido, magro, gracile, sui trentacinque anni di età. “Se vi mettevate a discorrere con lui, vi guardava con estrema fissità e attenzione, ascoltava con severa urbanità ogni vostra parola, come riflettendoci su, come se voi – con la vostra domanda – gli aveste posto un problema o voleste strappargli un qualche segreto”. Il narratore, amico di famiglia di Gvòdzikov, all’inizio non è molto interessato a quel tipo taciturno, ma col tempo, avvertendo in lui qualcosa di enigmatico e interessante, decide di farne la conoscenza e lo invita a casa sua per fumarsi una sigaretta e chiacchierare. Gorjànĉikov reagisce in malo modo, quasi scappa. A questo punto diventa una questione di principio: il protagonista dunque un mesetto dopo si presenta direttamente a casa dell’uomo, senza essere invitato. Gorjànĉikov vive in una casetta alla periferia di K., da una anziana che ha una figlia malata di tisi e madre single di una bambina di circa dieci anni, a cui l’uomo fa lezioni private. Turbato e sgomento per l’intrusione, Gorjànĉikov è molto a disagio e la conversazione è praticamente nulla. Deluso, il narratore se ne va e archivia la questione. Il lavoro lo tiene lontano da K. per circa tre mesi e al suo ritorno scopre che Aleksàndr Petroviĉ Gorjànĉikov è morto: addirittura nella cittadina lo hanno quasi già dimenticato. Spinto oltre che dalla precedente curiosità anche dalla pena per quella triste fine, l’uomo si reca nella casa dove viveva Gorjànĉikov e per una piccola cifra ottiene di portarsi via le sue carte. È tutta roba di nessuna importanza, tranne “un quadernetto abbastanza voluminoso, coperto di una scrittura minuta e non finito”. Si tratta del diario dei dieci anni di prigionia ai lavori forzati di Aleksàndr Petroviĉ Gorjànĉikov, che lui stesso ha intitolato Scene da una casa di morti

Pubblicato per la prima volta sulla rivista “Vremja” tra il 1860 e il 1862, Memorie da una casa di morti è un romanzo che presenta diversi tratti autobiografici. Nel 1849, infatti, il giovane Fëdor Michajlovič Dostoevskij era stato condannato a morte dallo Zar Nicola I per il reato di associazione a società segreta con scopi sovversivi. Si trattava in realtà non di un gruppo di cospiratori o rivoluzionari, ma del circolo politico culturale promosso da Michail Vasil′evič Petraševskij, un giovane intellettuale di simpatie riformiste: riunioni infuocate, feroci critiche al regime, volantini stampati clandestinamente ma poco più. Ecco forse perché nel dicembre 1849 la condanna capitale venne cancellata all’ultimo minuto. Ma ciò avvenne non con una comunicazione burocratica come sarebbe stato normale, bensì con una messa in scena crudele: nove condannati tra i quali Dostoevskij infatti vennero condotti - nella più cupa disperazione - in piazza Sëmenov con indosso le camicie bianche, abbigliamento tipico delle esecuzioni. Solo un attimo prima che il boia cominciasse a eseguire le condanne, fu annunciata la revoca della condanna capitale e la sua commutazione in lavori forzati. Lo scrittore trascorrerà quattro anni al campo di Omsk, in Siberia, in condizioni durissime, fino a ricevere uno sconto di pena per buona condotta e per aver accettato di arruolarsi nell’esercito come soldato semplice del VII battaglione siberiano. L’esperienza di Dostoevskij rende il ritratto delle prigioni siberiane particolarmente vivido, ma per ovvi motivi Memorie da una casa di morti non poteva essere un’opera di denuncia, in cui si mostrano orrori per chiedere riforme: li mostra perché essi ci sono, come fossero parte integrante del percorso di espiazione di ogni condannato, un male quasi necessario, come pare insegnare il pedante, passivo Akim Akimitch, che fa da “virgilio” al nuovo arrivato Aleksàndr Petroviĉ Gorjànĉikov. Né tantomeno aspettatevi un prison novel ambientato nella Russia zarista. Si tratta invece di un affresco dolente fatto di tanti singoli ritratti – alcuni a tinte corrusche, drammatici, altri più teneri, quasi acquerelli – di storie personali, di umane sofferenze, di diverse strategie di sopravvivenza. Su tutto domina un afflato quasi spirituale: non è un caso che questo è stato l’unico libro di Dostoevskij ad essere applaudito da Lev Tolstoj.