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Memorie dal sottosuolo

Memorie dal sottosuolo

Un malvagio. Un uomo odioso. Così si descrive un quarantenne assessore di collegio della burocrazia russa ottocentesca, che ha abbandonato il servizio avendo ricevuto una piccola eredità con cui ora campa di rendita. Crede d’aver male al fegato, ma non si vuole curare. Non per sfiducia nei dottori e nella medicina ma per pura malignità, anche se in questo modo fa dispetto solo a se stesso. In verità – dice – non è neppure genuinamente perfido. Nulla ha saputo diventare davvero, né cattivo né buono, né ribaldo né onesto. Nemmeno un insetto gli è riuscito d’essere. Avere una piena e lucida coscienza della realtà, ecco il suo vero male: avere la consapevolezza di ciò che è bello e sublime e cedere ugualmente alla cose più basse e vili, provando una sorta di morboso piacere nel riconoscere d’essersi scientemente crogiolato nel proprio fango. A volte il pensiero di queste sordide azioni torna a opprimerlo. Ve ne sono un paio, particolarmente meschine, che risalgono a quando aveva ventiquattro anni e che ha deciso di raccontare per scritto. Perché lo fa? Un po’ perché forse si libererà del loro peso, un po’ perché si annoia…

La prima colpa che riaffiora dal sottosuolo interiore di questo disturbante personaggio è il tentativo mancato di sfidare a duello un ufficiale che a suo parere lo ha offeso (tentativo risolto poi in uno spintone che gli dà sulla Prospettiva Nevskij e di cui l’altro neanche si accorge). E c’è la perversa presa in giro di Liza, una giovane prostituta incontrata in un bordello dove ha seguito alcuni ex compagni di scuola dopo essersi ubriacato e reso ridicolo durante una cena a cui non lo avevano invitato. A quella sfortunata ragazza fa credere di essere un benefattore che la vuole riportare sulla retta via. Ma quando lei si presenta a casa sua le sbatte in faccia l’autentica natura delle sue false parole, le usa violenza e le caccia in mano del denaro, facendola fuggire in lacrime. Il racconto particolareggiato di queste vigliaccate e della filosofia esistenziale che le ha generate segna la svolta letteraria di Fëdor Dostoevskij. Le Memorie dal sottosuolo, pubblicate nel 1864, fanno infatti da spartiacque fra i suoi primi romanzi dagli intenti più o meno umanitari e i successivi, potentissimi, Delitto e castigo, I demoni, I fratelli Karamazov, dominati dal tema del peccato. Suddivisa in due parti distinte, la prima in cui il protagonista spiega le ragioni del suo modo di essere, la seconda in cui rievoca due momenti vergognosi della sua giovinezza, quest’opera impietosa mette addosso un disagio acuto e insostenibile come lo stridere del gesso sulla lavagna. Alla base del male di vivere del narratore c’è il senso d’inadeguatezza per il proprio aspetto, il proprio abbigliamento, il proprio poco soddisfacente lavoro. La frustrazione sociale viene però enfatizzata fino al parossismo e si trasforma in sadomasochistica voluttà. Dostoevskij guarda nel pozzo oscuro dell’animo umano e quel che vede fa rabbrividire. Non parla, non ancora, di delitti che fanno scorrere il sangue, ma di un’abiezione morale persino più crudele. Queste Memorie “sono un forte veleno, che è meglio per molti non toccare”, avverte Dmitrij Mirskij: per chi non sia sufficientemente forte da sopportarne la tensione, o abbastanza innocente da non esserne contaminato, la lettura è sconsigliata. Come dargli torto?