
Hanno filmato le cruente scene di tortura. È inutile che vengano criticati, d’altronde sono un canale d’informazione ed è del tutto lecito mostrare la realtà dei fatti. Naturalmente, loro biasimano la condotta dei torturatori, eppure gli sono grati. Sono stati così collaborativi; li hanno aiutati nelle riprese evitando di far esplodere gli ostaggi, il che “si sarebbe tradotto in un denso fumo monocromo poco propizio all’innalzamento dell’indice di ascolto.” Per non parlare dell’esecuzione dei bambini. Con quello sì che si raggiungono milioni di spettatori, anche di notte sebbene “quelle pratiche erano sgradite agli inserzionisti, che temevano soprattutto un danno di immagine per il marchio dei loro prodotti per bebè”... È insegnante in un liceo di un quartiere borghese della capitale. Se avesse ereditato una bella somma, ora non vivrebbe in un appartamento “grande come un paio di vasetti di yogurt” e non sarebbe costretto a sorbirsi la “giovinezza radiosa e rivoltante” degli studenti mentre lui, con i suoi cinquant’anni e il suo alcolismo si sta avviando verso la vecchiaia e la morte. Quindici anni prima, ha incontrato in sala professori una collega fresca di nomina, hanno fatto l’amore nei bagni della palestra e il mese dopo si sono sposati, per motivi fiscali. Ora si sentono raramente. Lei non è proprio matta ma almeno una volta l’anno ha bisogno di un ricovero. Quando lo chiama, sente provenire rantoli dall’altro capo della cornetta. Così riattacca... L’ha amata perché era bella, intelligente e allegra come un passerotto. Hanno continuato ad amarsi anche quando li hanno cacciati dall’appartamento di Boulevard de Sépastopol e hanno trascorso luglio per strada. Hanno vissuto di elemosina, dormendo ai piedi di Notre-Dame e lavandosi alle fontane, all’alba quando Parigi è “deserta come la luna”. Un giorno si svegliano e come se il loro “amore avesse cambiato direzione durante il sonno”, iniziano a odiarsi. Lui le tira un cazzotto che la lascia sanguinante; lei risponde accanendosi su di lui con una bottiglia e lo lascia stramazzante per terra...
In Italia, la pubblicazione delle due opere del francese Régis Jauffret (Microfictions e Microfictions 2018) ha seguito un percorso à rebours. Infatti, se la prima raccolta di racconti è apparsa in Francia nel 2007, da noi è stata pubblicata solo nel 2021 per i tipi di Clichy, con il titolo di Microfictions. Secondo volume poiché nel frattempo nel 2019 la casa editrice aveva dato alle stampe la seconda raccolta. Ecco spiegata l’indicazione “secondo volume” dell’edizione italiana nonostante l’opera sia cronologicamente la prima. Vero e proprio caso letterario, Microfictions è un’elefantiaca raccolta di cinquecento racconti definita in Francia opéra-monstre, nelle cui millesedici pagine Jauffret imbastisce delle micro-narrazioni (le microfinzioni del titolo) caratterizzate da una lunghezza standard: due facciate di un’unica pagina. I racconti si susseguono quindi brevi, taglienti, disturbanti in un vero e proprio “diluvio di storie” la cui ferocia è smorzata dalla brevità della forma. Sì, perché leggere Microfictions è un po’ come mandar giù piccoli shot colmi di un ributtante distillato. Proseguire nella lettura può risultare difficile. Ogni racconto è una venefica zaffata di orrore, un orrore magnificamente narrato che può provocare non solo reazioni emotive (sbigottimento, angoscia, disperazione) ma anche fisiche (disgusto, nausea, fame d’aria, mal di stomaco). Nella nota sulla traduzione, la scrittura di Jauffret viene paragonata a uno “squisito veleno” che viene assunto, goccia dopo goccia, per cinquecento volte. Immergersi in Microfictions può essere infatti un’esperienza svigorente, nella quale si è sottoposti a un graduale, lento e costante intorpidimento dei sensi e della mente. Potenziali lettori, siete stati avvertiti.