
Fontevrault è decisamente il più inquietante tra tutti i penitenziari francesi. Un carcere che fa inorridire e soffrire al solo pensiero anche i detenuti più avvezzi alle quattro mura di una cella. Non sono ben chiari i motivi per cui tale istituto di detenzione abbia la pessima fama che ha. Probabilmente a causa della sua nebulosa storia, o perché porto di passaggio degli ergastolani in viaggio verso Caienna, oppure perché da sempre ospita detenuti tra i più scellerati. Fondamentalmente non importa: quello che è interessante è che, sin dall’infanzia, Jean ha desiderato entrare in quel carcere. È sempre stato convinto, sin da ragazzo, che il condannato a risiedere per trent’anni tra quelle mura, avesse realizzato l’ultima trasformazione di sé, che solo la morte avrebbe poi definitivamente completato. Questa sorta di “riuscita” si può paragonare a quella di raggiungere e toccare con mano la pena capitale. Harcamone per esempio è in attesa del patibolo: lui ce l’ha fatta! Certo è un obiettivo che attrae Jean come fosse una magia, ma al tempo stesso lo spaventa, perché proprio non sa cosa lo aspetta. Il giovane è innamorato della bellezza e non è forse proprio tale amore a fargli desiderare di coronare la sua vita con una morte violenta? La gloria, quella beatitudine che non è umana, solo una fine così può donarla. Eppure nessun condannato al patibolo ha mai ricevuto onorificenze postume, a nessun decapitato è stata mai posta sul capo un’aureola così come si fa con i santi, per esempio. Certo che si parla dei condannati colpevoli, quelli che come Harcamone hanno peccato e commesso reati, delitti e atrocità. Nella storia ci sono stati anche i puri d’animo decapitati e a loro sì che è stata posta la santa corona sul capo. Finalmente Jean giunge al penitenziario di Fontevrault, in una giornata molto fredda, a bordo di un vagone blindato. Sono in trenta a giungere al carcere dei sogni, anche perché la carrozza consta di solo trenta celle. È notte quando scendono dal treno e ad attenderli ci sono otto guardie, messe in fila. Si apre un cancello, poi un primo cortiletto, poi un secondo atrio e poi gli scalini, quelli rischiarati dalle lampadine. Camminando arrivano davanti a un magnifico giardino, con una grande vasca centrale e poi finalmente dentro, nei corridoi, risucchiati da un caldo soffocante. Ed è lì, in quel preciso istante, che Jean si rende conto, che per un bel pezzo, se non per anni, avrebbe dovuto esprimersi solo con bisbigli e parole soffocate. Sorride…
Miracolo della rosa è il romanzo in parte autobiografico che Jean Genet compone nel periodo a cavallo tra il 1943 e il 1944, mentre sconta la sua pena nelle prigioni di Fresnes prima e di Camp de Tourelles dopo. Lo scritto viene dato alle stampe nel 1946 da Marc Barbezat e poi ancora pubblicato nel 1952 da Gallimard, in una versione in parte censurata, perché considerata troppo scandalosa. Un libro nato dalla combinazione di due lavori diversi. “Forse tra un mese e mezzo avrò finito un libretto tra le 100 e le 150 pagine: Miracolo della rosa. Si tratta della meravigliosa avventura degli ultimi quarantacinque giorni di un condannato a morte. Meravigliosa, capisce? Poi le mie memorie, appena romanzate - forse anche per niente – su Mettray”. Così Genet parla dei suoi scritti a quello che sarebbe poi diventato il suo editore, nel novembre del 1943. Due testi che inaspettatamente si sposano. Nel Miracolo della rosa la narrazione è in prima persona e il narratore racconta gli ultimi giorni che il detenuto sconta nel carcere di Fontevrault, tra il 1940 e il 1941, durante l’occupazione tedesca. La voce narrante alterna il racconto dell’attuale prigionia, con i ricordi legati alla detenzione presso Mettray, dove Genet è rimasto rinchiuso tra il 1926 e il 1929. Ed è proprio da quella rievocazione, che prendono vita i personaggi principali del romanzo, tutti ben delineati e ben collocati all’interno della storia. L’esposizione dei fatti si snoda, quindi, su epoche differenti e disegna luoghi diversi, se pur molto somiglianti tra loro. È imprecisa la scrittura di Genet, di una imprecisione che tende a lasciare indietro la pura attenzione, per favorire quella poesia che si ritrova in ogni frase e in ogni parola. Sono storie immaginarie quelle narrate dallo scrittore francese (o presunte tali, visto che non si è affatto certi della sua reale permanenza nel carcere di Fontevrault), che rispecchiano la squallida realtà carceraria. Non tradisce Genet il suo stile, quello che viaggia sul filo del rasoio, quello che confonde il lettore che si avvicina a un autore dalla vita sregolata, tanto da non capire dove nel suo racconto finisce la fantasia e inizia la realtà e dove termina la verità per far spazio all’incanto. Il dramma, il male e il bene che si confrontano, l’erotismo. l’omosessualità e quell’Osceno a tratti incomprensibile, si palesano nei personaggi che animano l’opera, prepotenti, dispostici, violenti e assassini. E poi il fascino dell’omicida, del criminale, del più malvagio tra i delinquenti, colpisce sino a stregare. Perché non glorificare un uomo così? Indubbiamente un’opera magistrale quella di Genet, dove la perplessità del lettore può non nascere a causa della pornografia o dalla descrizione della dura vita carceraria, ma da quella punta forse esagerata di giustificazione e di esaltazione di chi nella vita ha perso per colpa o per necessità la retta via.