
Paul Sheldon è uno scrittore di successo, e ora si sta come svegliando da un lungo sonno. Ricorda il dolore, ricorda i soccorsi di una donna. Ecco, un incidente! Poi il torpore. Affiorano immagini. L’infanzia, una macchina che scivola sul fondo ghiacciato e lui che perde il controllo del veicolo. Poi il nulla. Ora è tutto chiaro. È prigioniero della sua infermiera. Che lo sta drogando. Annie Wilkies ci sa fare. Peraltro è stata infermiera per davvero. Lei è particolarmente irritabile, potrebbe anche non perdonare, nella sua inumana e perfida dolcezza, in quel suo senso di amore che sfiora la più morbosa possessività. In fondo legge romanzi rosa, si è innamorata di un’eroina di una serie di largo successo, tale Misery, in fondo nella sua efferata natura serial killer si nasconde l’animo di una fanciullina in fiore, “sognosa” e trasognante, quasi una fiaba fatta di possente corporatura ed istinti indomiti e violenti. Sarà che è sola. Sarà che non ha un aspetto di quelli esattamente perturbanti, oppure che siano degni di sguardi concupiscenti. Sarà che magari abitare nella oscura, immensa, desertica ed asfissiante provincia statunitense, nel cuore di sterminate regioni fatte di pub, distributori di benzina, vaccari (cow-boy), neve e desolazione d’inverno e molto silenzio d’estate, sicuramente niente aiuta a socializzare ad essere socializzati, a insomma sviluppare le più elementari capacità relazionali. Perché Annie infatti non relaziona, “reaziona” e basta. Insomma, con tutte le sue turbe psico-emotive ha poco da felicitare e felicitarsi. Gli capita una di quelle fortune immense e realizzanti, una di quelle faccende per cui vale la pena avere tanti travasi di bile in cambio di una zolletta di zucchero. Lei ama una “easy listening” serie romanzata, dicevamo, e che cosa succede? Trova, incidentato e accidentalmente, l’autore dei romanzi che ama, un tal Paul Sheldon, improvvidamente stordito e infortunato causa una eccessiva bevuta (o quel che sia) che lo porta fuori strada con la sua automobile. Apriti cielo. Tuonate stelle, fulminate lampi e che venga il giudizio universale. Paul all’inizio ringrazia la buona sorte. Annie forse, inizia una macumba, oppure innalza un altare votivo. Perché gli farà vedere lei, a quello stolto di Paul, cosa succede, a far terminare la serie rosa e a far morire Misery. Ma come si permette, l’autore, di tradire i fedeli lettori? No niente di sessuale, per carità. Forse solo una innocua asessuata vorace libidine di distrazione a mezzo parole. Ella ha un piccolo vezzo, diletto, sogno, realtà, necessità. Una sorta di melting pot di sensazioni, agitazioni, evoluzioni e vibrazioni. Legge e legge letteratura di genere. Quella che fa la fortuna di editori prima che autori. Inutile discutere: lei trova soddisfazione e nessuno può togliergli questo suo innocuo (forse) diritto. Se la letteratura diventa industria e un romanzo è come un dolcetto di cioccolata venduto sottocosto all’hard discount, ci sono milioni di Annie nel mondo e anche decine di Paul. Ora lui dovrà pagare per tutti. Gli azzardi si pagano, un crimine efferato del genere, avere la forza di estinguere naturalmente una serie paraletteraria di successo è un danno ed un affronto. Paul, innocuo, imprigionato, sottomesso causa forza maggiore, riscriverà il suo libro (pena la vita), perché Annie non può rimanere per sempre definitivamente sola, diamine, guai a toglierle il giocattolo. In fondo (ma in fondo badate bene, bisogna scavare, scavare tanto) Annie non è poi cattiva. Nemmeno troppo antipatica. Un poco eccessivamente ossessiva e manesca, ma voglio vedere voi. Sola, in preda ad ansimi e spasmi che solo la solitudine rancida può regalare, cerca consolazioni, cerca realizzazioni, anche se solo a parole. Paul deve pagare, Misery non deve morire...
Condotta magistralmente, la storia fin qui descritta, nata dalla mente fervida e feconda di Stephen King è una di quelle rivelazioni che nel tempo fecondano numerose riflessioni. Perché al di là del thriller dai risvolti talvolta grotteschi e dai dilatati ma mai prolissi attimi di pura tensione, è anche un espediente per parlare d’altro. King, universalmente oramai riconosciuto maestro del genere in questione infatti, non si attiene semplicemente a far spaventare i lettori e a condurli dentro la quasi epica e sicuramente titanica lotta fra una Annie in carne ed un Paul malconcio, drogato con tranquillanti e basito, ma fa di più. Semina qua e là, tra le righe, i dissidi e gli impervi sentieri pensierosi di chi, volendo a fare lo scrittore, si trova alla fine un mero lavoro e non sa come uscirne, perché è l’unico mestiere che sa fare (“io posso”, grida spesso) ma è anche una di quelle attività che dovrebbero dipendere dall’estro di chi fa, non dalle pallose, reiterate, stucchevoli necessità di chi legge, che potrà anche non leggere ma non dettare la scrittura. Un dibattito aperto, tutt’altro che concluso, ma che mi incita a consigliare l’acquisto di questo libro non solo agli amanti del genere o di questo autore, ma anche a tutti quelli (pochi) che in un paese come il nostro, dedito alla autoreferenzialità e allo scarso ascolto, dati alla mano, sanno benissimo la differenza che passa fra scrivere e scrittore, fra leggere ed essere letti, fra arte e industria artistica, fra mero esercizio di memoria e creazione. Libro encomiabile e credo fortemente voluto da King nel lontano 1987, considerato che pochi anni dopo si dedicherà alla stesura di quella che sarà non la sua mera biografia ma anche il suo testamento letterario, il saggio On writing. Il che fatto da un autore considerato commerciale (e vi dirò, non sempre ciò vuol dire banale) è una chicca. In epoca relativamente recente e comunque precedente il libro altri autori di altra connotazione e registro ma a me particolarmente cari come Queneau (Icaro involato) e Calvino (Se una notte d’inverno un viaggiatore) si erano cimentati a decriptare i particolari rapporti, sinuosi ed incredibili, che si instaurano, in differenti contesti, fra creazione e fruizione, fra scrittore e lettore, per quell’unico, imprescindibile tramite che comunque rimane il libro.