
Harlem, New York. Ollie Cross ha vent’anni quando decide di trasferirsi in città con la sua fidanzata Clara. Mentre tenta di passare i test di ammissione a medicina, lavora come paramedico in una delle zone più degradate della città. Questo significa affrontare situazioni estreme, con persone spesso violente; significa vedere bambini con la pancia squarciata da un proiettile o da una lama, entrare negli appartamenti e trovare pezzi di corpi sparsi; significa dover curare la faccia peggiore della razza umana, la feccia che abita nel lato oscuro di New York. Per Ollie è una sorta di iniziazione alla quale deve resistere o soccombere, così come a un’iniziazione assomiglia la vita con la squadra di paramedici con cui trascorre gran parte del suo tempo. C’è il suo partner Rutkovsky, burbero, schivo e riservato o lo spietato LaFontaine, oppure Verdis, buono e caritatevole con tutti. Per sentirsi parte della squadra occorre avere un carattere forte, a volte essere spietati con i pazienti che non hanno alcuna speranza di sopravvivere, soprattutto se è uno “skel”, un balordo, uno che se l’è cercata. Ollie impara giorno dopo giorno, turno dopo turno. Il suo carattere si plasma, si fa duro anche con Clara che un giorno se ne va, lasciandolo solo nel piccolo monolocale. “Era destino” dice Rutkovsky, “quelli come noi possono stare solo con persone simili a loro”...
“Considerata l’infinita processione di malattia, miseria e morte, se l’operatore sanitario professionista non mostra un’inclinazione realmente filantropica, si abituerà alla sofferenza, diventerà indifferente e, alla fine, sprezzante nei confronti del paziente, che è come un file o una telefonata a un cliente. Un paziente significa lavoro. (..) Se non fate attenzione, arriverete al punto di desiderare la morte di qualcuno per mera pigrizia”. Così recita il manuale studiato da Ollie, il cui soprannome all’interno della squadra è Madre Teresa, proprio perché in lui è ancora vivo lo spirito filantropico, quello slancio emotivo grazie al quale vorrebbe aiutare tutti. Ma conservarlo non fa bene alla mente se si vuole sopravvivere. Sannon Burke, scrittore e sceneggiatore americano, lo sa bene perché dopo essersi laureato ha lavorato come vigile del fuoco e paramedico, riversando nei suoi romanzi il suo vissuto, le sue esperienze nel campo dell’assistenza medica. Quando la morte, vista così tante volte, diventa una banalità è difficile spiegare questa transizione a chi non ci è mai passato. Questo è il concetto su cui Burke insiste. La sensazione di sentirsi in colpa perché si è ancora vivi tra i morti, ed è questo che porta all’indifferenza totale. Sono un modo per proteggersi da ciò che vediamo, dice Burke nell’introduzione, questa indifferenza e questa insensibilità, ma che portano con sé però il rischio di diventare malvagi, fottutamente e gratuitamente malvagi.