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Muri

muri

I trattati che i Paesi vincitori siglano prima della fine della Seconda guerra mondiale dividono Berlino, la capitale tedesca, in quattro aree diverse: una “orientale”, sotto il controllo dei sovietici, e tre “occidentali” rispettivamente controllate da francesi, inglesi e americani. La differenza tra le condizioni di vita garantite dai russi e dagli occidentali sono molto nette e il divario aumenta mese dopo mese. Così, decine di tedeschi lasciano la parte orientale per i ben più floridi salari garantiti dai capitalisti. Per i vertici della Repubblica Democratica Tedesca, la DDR, questa situazione diventa pian piano insostenibile: il capo di stato Walter Ulbricht contratta a lungo con il governo centrale di Mosca fino alla metà di agosto del 1961, quando riesce ad ottenere finalmente una risposta affermativa. In quella che sarà ricordata come “la domenica del filo spinato”, i 156 km di muro che hanno diviso la capitale tedesca per quasi quarant’anni vengono eretti in tutta fretta per cogliere gli occidentali di sorpresa. Quel muro, ripreso in decine di servizi giornalistici, descritto in ogni sua parte da scrittori e saggisti, e ancora, ripreso da cineprese di registi provenienti da ogni parte del mondo, finisce ben presto per essere il simbolo più forte dei due blocchi contrapposti negli anni confusi della Guerra Fredda. Quel muro, che con la sua sola presenza scongiura una guerra nucleare. Quel muro che, come ebbe a dire JFK, funziona “dannatamente meglio di una guerra”. Quel muro, inizialmente costruito per isolare gli occidentali, che finisce per intimorire soprattutto quelli del blocco orientale, a cui era completamente proibito di avvicinarsi al muro stesso. Bisogna aspettare l’89 per vedere cadere quel muro, ormai diventato il simbolo, una reliquia quasi: quando il ministro della DDR Günter Schabowski - visibilmente confuso - annuncia che la polizia non avrebbe più fermato nessun cittadino desideroso di attraversare la frontiera verso l’Ovest, decine di tedeschi si riversano in strada per abbattere fisicamente un muro politicamente già crollato. Il mondo è cambiato, e qualcuno forse ancora deve rendersene conto...

Vi state chiedendo se è possibile rileggere la storia della civiltà umana a partire da argilla, malta, sabbia e filo spinato? David Frye, con questo saggio, cerca di dare una risposta proprio a questo quesito. Il muro che per tutta la seconda metà del XX secolo divise l’Europa e le coscienze di tutti gli europei, è solo uno tra gli ultimi che lo storico descrive nel suo testo. L’autore, infatti, parte proprio dagli albori della civiltà, in Mesopotamia, una terra assolata e fragile. Come fragili sono i muri che per primo il re Shulg farà costruire a circondare il suo regno: questa recinzione, costantemente distrutta dalle intemperie, riuscirà a raggiungere l’immortalità solo grazie ai racconti autobiografici che lo stesso sovrano rimanderà ai posteri, densi di scene epiche talvolta (forse) poco veritiere. E molti dei muri che Frye ci racconta avranno una sorte non così dissimile: numerosi sono i confini che, perdendo il ruolo originale di barriera difensiva, finiranno per diventare semplicemente dei simboli di luoghi e di civiltà lontane. È il caso del Muro di Berlino, certo. Ma è anche il caso della Muraglia Cinese, ad esempio, che diventerà pian piano più un esotico souvenir per gli occidentali che il cuore della cultura degli orientali. È questo il destino, sembra dirci Frye, di tutti i muri. Forse anche il destino dei muri più recenti, quelli ancora in costruzione: sono le recinzioni che le élite e gli stati emergenti stanno facendo costruire intorno ai loro quartieri moderni e irraggiungibili. È questo il motivo per cui il saggio di Frye, pur se fluido e piacevole nell’enumerazione di date e fatti storici, lascia il lettore con l’amaro in bocca: l’idea di muro, per tutto il saggio raccontata con il distacco della prospettiva storica, dimostra - nelle battute finali - tutta la sua sconcertante attualità.