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Ninna nanna delle mosche

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Lucania, anni Venti del Novecento. Uno sciame nerissimo di mosche sta sostando da più di una settimana sopra l’abitazione di Berto Macaluso, fornaio di Palmira, un piccolo paesino abbarbicato sulla montagnella di Montrone. Don Silvano, parroco del paese, dice che tutti gli abitanti sono riuniti dietro al forno a pregare. Il portalettere azzarda: e se fosse opera del Maligno? Se avesse inviato lui un segno premonitore per punire qualcuno? Don Silvano lo guarda storto e lo ammonisce: è meglio che questa storia non esca da Palmira; e soprattutto che non arrivi alle orecchie di qualcuno del borgo di San Chirico: quelli non aspettano altro che l’occasione per calunniare il paese vicino. In cuor suo però, Don Silvano sa che il portalettere non è così lontano dalla verità; che non è un caso che la nuvola scura si trovi proprio sopra “La farina della luna piena” di Berto Macaluso. E nemmeno che la figlia dell’uomo, la piccola Rosa, che la moglie aveva da poco dato alla luce, gli fosse nata praticamente cieca. La colpa è tutta di quelle lettere sfacciate; quelle lettere che vengono da lontano, dal Cile, e che riversano sul foglio parole appassionate, azzardate, proibite. Proibite perché dette ad un uomo da un altro uomo. Gregorio e Berto, i protetti di Don Silvano: amici d’infanzia, amanti dei libri. Entrambi solitari e taciturni. Separati con la forza da adulti quando fu chiaro cosa provavano l’uno per l’altro; quando le maldicenze cominciavano a insinuarsi dentro ai vicoli di Palmira. Ma a niente è valso l’esilio forzato di Gregorio in Sud America, a faticare nelle miniere di salnitro come molti dei suoi conterranei; come a niente è valso il matrimonio di Berto con Serafina Canaria, la ninnanannara del paese. Quella dei due uomini è una passione longeva e mai spenta, che la lontananza non ha fatto altro che alimentare e rafforzare. E sì che Don Silvano intercetta ogni lettera che Gregorio Zafarone manda puntuale dal Cile; lettere che non arrivano mai nelle mani di Berto. Ma forse è arrivato il momento che il fornaio di Palmira sappia ogni cosa: perché nella sua ultima lettera, Gregorio minaccia di non voler più vivere, atterrito dal silenzio dell’uomo che ama. Si farà presto inghiottire dal deserto, perché senza di lui non vuole più vivere…



In bilico tra realtà e magia, lirica e prosa, Ninna nanna delle mosche ha tutte le fattezze di una bella storia epica; una storia antica, a cavallo di due mondi in apparenza lontani l’uno dall’altro, ma profondamente uniti dal filo conduttore più potente di tutti: l’amore. E non importa se quel sentimento disturba, se è proibito, contrastato, calunniato; è un sentimento così forte da fungere da motore, costringendo i personaggi a muoversi, intraprendere un viaggio, affrontare qualunque peripezia sia necessaria a farlo trionfare: Berto insegue Gregorio, Serafina insegue Berto; Assunta insegue sua figlia Serafina; Dorotea, pianista del cinematografo cileno, insegue Gregorio…e tutti, in definitiva si muovono in direzione del proprio ineluttabile destino, del quale lo strano sciame di mosche sembra conoscere a priori tutti i dettagli. La prosa di Alessio Arena - compositore, insegnante, viaggiatore - è molto interessante: elegante e sofisticata, musicale, intrisa di superstizione; oltre che deliziare il lettore, attraverso un'accurata ricerca storica - ricca di dettagli che dimostrano la conoscenza personale dei luoghi da parte dell’autore - ci porta anche a conoscenza di una vicenda forse poco nota: la vita degli immigrati italiani riversatisi, a cavallo tra l’ottocento e il novecento, nella pampa cilena, un deserto arido e compatto nel quale nacquero le prime miniere di salnitro, utilizzato come fertilizzante. Duro lavoro, condizioni precarie, pochissimo svago: così se la passavano i nostri all’epoca. Così Gregorio vive lontano dal suo amore Berto, sconsolato in quel di Porvenir, senza nemmeno la possibilità di vedere le stelle: “(...) Lo sai che le stelle non cadono mai sopra al deserto? Devono pensare che quello di sotto è un altro cielo, devono pensare: che mi butto a fare là? Chi mi guarda? Chi ce l’avrà un desiderio, se cado? (...)” .