
Siamo negli USA dei primissimi anni Novanta. Charlie è un quindicenne timido e fragile alle prese con le difficoltà della crescita e della ricerca del proprio posto nel mondo. È il terzogenito di una famiglia “normale” nella quale il fratello maggiore adora la sua macchina, la sorella è piuttosto carina, la mamma piange un sacco davanti alla TV e il babbo “lavora sodo”. Charlie comincia l’anno scolastico con difficoltà ed apprensione. Si sente diverso dagli altri adolescenti, non gli è facile adattarsi alla nuova scuola, che non gli piace, e soprattutto deve fare i conti con la tragedia che lo ha colpito: Michael, il suo migliore amico, si è suicidato. Il ragazzo si sente incapace di spiegare le proprie difficoltà, di rivelare il proprio disagio, di porre domande a chi gli sta vicino. In famiglia nessuno lo ha mai compreso a fondo, tranne forse la zia Helen, che però - le sventure si sommano sempre, si sottraggono mai - è morta troppo presto. Charlie dunque, per fare chiarezza in sé, ma forse anche solo per raccontarsi, comincia a scrivere lunghe e dettagliate lettere ad uno sconosciuto, al quale racconta i suoi giorni. Lo accolgono come amici Sam, una ragazza di cui subito s’innamora, e Patrick, il fratello di lei. I due iniziano Charlie ai piaceri della vita di un ragazzo “normale”: sesso, droga, alcol, feste. Ed egli racconta nelle sue lettere queste “scoperte” e queste nuove esperienze, la sensazione di grandezza e di invincibilità che ne derivano. Finché una sera, nella quale ha consumato una buona dose di LSD, Charlie viene trovato dalla polizia steso a terra nella neve. È ricoverato in ospedale e lì si svela a tutti quanto pietoso sia il suo stato mentale. Una persona importante per il recupero di Charlie è Bill, il professore d’inglese, che intravede delle possibilità nel ragazzo e lo esorta a scrivere e a migliorare il suo stile. Le lettere diverranno così uno strumento di crescita, linguistica, ma anche psicologica. Fatto un poco più audace e un poco più sicuro di sé, Charlie, che non riesce ad avere l’adorata Sam, esce per qualche tempo con Mary Elizabeth, una ragazza della quale gli importa poco o nulla. La relazione si interrompe presto, mentre altre ne nascono: Sam con Craig, un universitario; Mary Elizabeth con Peter e così via, tra prendersi e lasciarsi più ridicoli che tragici...
Noi siamo infinito, già pubblicato da Frassinelli nel 2006 con il titolo Ragazzo da parete (che traduceva l’originale inglese The Perks of Being Wallflower), è tornato ora in libreria in occasione dell’uscita dell’omonimo film. Non ho visto il film, ma il libro, alla prima lettura, non pare né particolarmente originale, né tanto meno bello e compiuto da poterlo considerare un caso letterario . Luoghi comuni ed ossessioni "americane" accompagnano costantemente il lettore.“Ho soltanto bisogno di sapere che là fuori c’è qualcuno che ascolta e che capisce e che non cerca di portarsi a letto le persone anche se potrebbe”, nelle prime sole dodici righe del romanzo la fissazione del “portarsi a letto” (tipicamente statunitense?) appare due volte. E’ una delle ossessioni presenti nel libro, insieme alla famiglia o, meglio, ai “problemi famigliari”. Genitori lontani ed estranei, madri lacrimose, sorelle che restano incinte a loro insaputa: tutto un repertorio da conversazione più pettegola che indagatrice, più superficiale che introspettiva. Specchio di una società puritana che lava i panni “sporchi” a colpi di consulente scolastico e di psicologo; che considera ogni momento della crescita e dell’evoluzione dell’individuo un problema; che lascia soli gli adolescenti per poi lagnarsene, questo romanzo è molto incline alla banalizzazione ed alla spettacolarizzazione dell’io. Eppure, ci avverte il comunicato stampa che accompagna l’edizione italiana, il libro negli USA è stato molto letto, molto discusso, nelle case e nelle scuole. Basta questo a farne un buon romanzo? Io credo di no. Un buon romanzo quando racconta di cose anche quotidiane e banali, lo fa in modo unico e speciale; un buon romanzo quando si attarda sulle elucubrazioni, psicologiche o fantastiche che siano, del protagonista lo rende indimenticabile (vi basta Mattia Pascal o volete anche il buon vecchio Zeno?); un buon romanzo vorresti che non finisse mai. Con “Noi siamo infinito” questo non succede. Almeno a me così pare.
Noi siamo infinito, già pubblicato da Frassinelli nel 2006 con il titolo Ragazzo da parete (che traduceva l’originale inglese The Perks of Being Wallflower), è tornato ora in libreria in occasione dell’uscita dell’omonimo film. Non ho visto il film, ma il libro, alla prima lettura, non pare né particolarmente originale, né tanto meno bello e compiuto da poterlo considerare un caso letterario . Luoghi comuni ed ossessioni "americane" accompagnano costantemente il lettore.“Ho soltanto bisogno di sapere che là fuori c’è qualcuno che ascolta e che capisce e che non cerca di portarsi a letto le persone anche se potrebbe”, nelle prime sole dodici righe del romanzo la fissazione del “portarsi a letto” (tipicamente statunitense?) appare due volte. E’ una delle ossessioni presenti nel libro, insieme alla famiglia o, meglio, ai “problemi famigliari”. Genitori lontani ed estranei, madri lacrimose, sorelle che restano incinte a loro insaputa: tutto un repertorio da conversazione più pettegola che indagatrice, più superficiale che introspettiva. Specchio di una società puritana che lava i panni “sporchi” a colpi di consulente scolastico e di psicologo; che considera ogni momento della crescita e dell’evoluzione dell’individuo un problema; che lascia soli gli adolescenti per poi lagnarsene, questo romanzo è molto incline alla banalizzazione ed alla spettacolarizzazione dell’io. Eppure, ci avverte il comunicato stampa che accompagna l’edizione italiana, il libro negli USA è stato molto letto, molto discusso, nelle case e nelle scuole. Basta questo a farne un buon romanzo? Io credo di no. Un buon romanzo quando racconta di cose anche quotidiane e banali, lo fa in modo unico e speciale; un buon romanzo quando si attarda sulle elucubrazioni, psicologiche o fantastiche che siano, del protagonista lo rende indimenticabile (vi basta Mattia Pascal o volete anche il buon vecchio Zeno?); un buon romanzo vorresti che non finisse mai. Con “Noi siamo infinito” questo non succede. Almeno a me così pare.