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In nome di Dio e per mano del diavolo

In nome di Dio e per mano del diavolo
Laurent “sapeva da sempre che tutto ciò era nel suo destino. Era naturale che fosse così, così ovvio come respirare, piangere, bere”. Ovvio che, alla fine del Quattrocento, il figlio del boia diventasse boia a sua volta. Reietto, maledetto, scansato dagli uomini, senza alcun diritto, neanche quello di entrare in una panetteria a comprare il cibo per sè o per la propria famiglia. Gli “esecutori delle alte e basse opere”, ossia delle sentenze di morte ma anche di quelle più lievi, ossia della gogna, erano talmente isolati da aver formato stirpe a sè, da portare tutti lo stesso cognome, e Laurent Deville non poteva fare eccezione. Anche se ci aveva provato, da giovane. Prima di rassegnarsi al proprio destino, e prima di conoscere il proprio dono, ossia quello di poter guarire col calore delle proprie mani. Bizzarro destino, quello di dover dare la morte potendo invece dare la vita. Destino mortale…
Saper scrivere, a volte, vuol dire riuscire a rappresentare in una maniera totalmente diversa da quanto ci si aspetterebbe. Si parla di un boia, e sarebbe logico attendersi una figura misera, un personaggio da luogo comune, un uomo inaridito dal proprio lavoro e dalle piccolezze umane. Invece, il piccolo Laurent che appare fin dalle prime pagine di questo In nome di Dio e per mano del diavolo è un ragazzo sensibile, attento a chi gli sta intorno, fin troppo cosciente della propria umanità per poter giudicare gli altri, per via dei suoi piccoli segreti,  dei tentativi di sfuggire al proprio destino, della consapevolezza dei propri limiti e dei propri errori. In questo racconto si ritrovano sapori che riportano al fratello Cadfael nato dalla penna di Ellis Peters. Un po´ per il periodo storico scelto, un po´ per la pietas di cui i protagonisti sono ricchi, un po´ per il modo di far emergere i personaggi, con delicate pennellate sfumate fino a creare un tutto tondo ben evidente.