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La sua convivenza con Dario si è appena conclusa. Tramite un amico, è entrata in contatto con un tale - un medico che ha partecipato a un bando internazionale che lo ha destinato in Svezia per un progetto di ricerca - che le ha dato in affitto, a un prezzo ragionevole, casa sua, nel quartiere Portuense. Vittoria dovrà solo ricevere la posta del medico, tenere il suo nome nel citofono e conservare il suo numero fisso. Ha trentaquattro anni Vittoria, scrive su un blog, parla di musica italiana ed è pervasa da una pigrizia dolente che pian piano si è fatta solitudine. Gli amici e le amiche la chiamano, la cercano, ma lei cede sempre meno; preferisce trascorrere il suo tempo in solitudine, dormendo sul divano, con la TV accesa, fino al mattino e ingozzandosi di tutto, fino ad arrivare quasi al punto di vomitare. Cosa che, tuttavia, lei non fa mai, perché teme che insieme al vomito se ne vada anche quella paura che la abita da molto tempo. Su Facebook, una sera, decide di aggiungere un hashtag a un post, perché ha capito che con il cancelletto può sintetizzare un pensiero o, come nel suo caso, un disagio. Da quel momento i like cominciano ad aumentare e i suoi post vengono condivisi sempre più di frequente. Si è accorta anche di venire bene in foto e pubblicare la sua faccia genera un costante aumento di like che le tornano utili: alternando foto e racconti, riesce ad assistere alla crescita rapida e continua di consensi sul suo profilo. Quello che fino a quel momento ha affidato al blog comincia a metterlo su Facebook: aggiunge argomenti e storie e riceve, quotidianamente, decine di richieste d’amicizia. Ben presto si fa strada l’idea di aprire anche un account Instagram. Nel frattempo, per vivere, fa le pulizie in tre Bed & Breakfast: uno in via San Cosimato, un altro in piazza Sonnino e l’ultimo in viale Trastevere. Comincia alle dieci e finisce alle quattordici. Cinque giorni alla settimana, per una paga mensile di settecentoventi euro al mese, che con gli straordinari possono diventare ottocento...

Di nuovo una frase fatta scelta come titolo del romanzo. Valentina Farinaccio ha abituato i lettori a identificare le sue storie con un luogo comune che richiama scenari che a una prima occhiata paiono indirizzare verso un senso univoco, salvo poi svelare ben altri significati. E anche il suo ultimo lavoro si presenta con un involucro - il titolo, appunto - che fa pensare a uno snodo della vicenda apparentemente semplice. In realtà, fin da subito, è chiaro che quel che si trova sotto il pelo dell’acqua è ben più denso, più corposo e in qualche modo drammatico di quanto resta in superficie. Vittoria, la protagonista di questa storia bellissima e terribile allo stesso tempo, è bravissima a curare la propria immagine e rendersi personaggio sul suo profilo Instagram - nel giro di pochissimo riesce a conquistare centinaia di migliaia di follower e a fare del suo apparire una vera e propria professione - ma non è in grado di prendersi cura di sé come persona. Ogni volta che salva una sua foto per pubblicarla è convinta di salvare anche se stessa, ma non è così; ogni volta che ne cancella un’altra, elimina anche un po’ di sé. E, per evitare di sparire, sceglie la strada peggiore per ricordare che esiste: si abbuffa. Il cibo diventa uno scudo per il suo dolore, il dolore di una bambina prima, una ragazza e una giovane donna poi, che si sente in colpa, perché convinta di deludere le aspettative e di ritrovare il suo reale valore solo nell’immagine di una foto e non nella realtà. Si sente talmente sola da temere che anche il dolore possa abbandonarla, quel sentimento potentissimo che ha imparato a conoscere quando, da piccola, suo padre se ne è andato. È tornato anche in seguito, quando il nuovo marito di sua madre le ha fatto conoscere la sofferenza nascosta dietro ogni tentativo di affetto. Anche Dario, il suo ultimo compagno, e Giuseppe Alessi - l’uomo capace di farla sentire senza peso, quindi leggera, ma anche inutile - le hanno fornito strumenti fondamentali per mappare meglio la propria geografia del dolore, dalla quale si ripara, ogni volta che si sente oppressa, buttandosi appunto sul cibo. Con un linguaggio semplice ma efficacissimo, capace di insinuarsi nell’animo del lettore e da lì farsi strada tra le pieghe più profonde della sua sensibilità, la storia della Farinaccio racconta la paura di esporsi, di mostrarsi per ciò che davvero si è, senza maschere e carichi di cicatrici e imperfezioni; mostra il lato più oscuro dell’ansia che troppo spesso attanaglia e spinge verso una solitudine che spaventa e può fare davvero male. La foto è di Nicole Rivellino.