
Si chiama Annarita e ha ottantaquattro anni. Ha da parecchio salutato i vent’anni, l’età della leggerezza e delle decisioni prese d’impeto. Ha da un po’ oltrepassato i quaranta, età in cui si avvertono i primi doloretti, che sono nulla che un antidolorifico e un po’ d’allenamento non possano risolvere. Il ricordo dei sessant’anni, quando le ginocchia iniziano a ceder sotto il peso del corpo, è parecchio lontano così come quello dei settanta, età in cui si comincia a sviluppare una certa ossessione per la solitudine, o almeno così ci se la racconta. A ottant’anni poi, diventa davvero difficile continuare a sorridere. Sono anni costellati da perdite e lutti. Gli amici scompaiono e non resta che stare lì ad attendere il proprio turno. A molti, lei compresa, capita di rimanere vedovi, e da quel momento si cominciano a considerare i giorni che separano dalla fine come un traguardo da raggiungere, e non come una disgrazia da evitare. Annarita vive nel Mostro, un complesso residenziale in cemento, brutto come un mostro, appunto, alla periferia di Milano. Da un paio d’anni non riesce più a camminare. All’inizio un bastone era sufficiente ad aiutarla, poi, nel giro di un paio di mesi, è stata costretta a servirsi prima di un deambulatore pieghevole e, alla fine, di una sedia a rotelle. Olga, la signora che si occupa di lei - e lo fa su base volontaria, perché un aiuto regolarmente retribuito costerebbe troppo, e Annarita non ce la potrebbe mai fare - l’ha aiutata con le pratiche burocratiche, ma per la Commissione incaricata di studiare la sua situazione gli estremi per ottenere un’indennità di accompagnamento ancora non ci sono e Annarita vive con settecento euro al mese. Non è semplice: al supermercato da tempo neppure passa dal reparto carne; fa provviste di tonno in scatola, pasta secca e patate...
“Non siamo poi così male, noi uomini, in fondo. È il branco che ci inquina”. L’esordio narrativo di Stefania Russo - autrice milanese di nascita e modenese d’adozione - prende le mosse da questo concetto di base e racconta che spesso basta davvero poco, un gesto apparentemente insignificante, ma in realtà profondo e importante, soprattutto se originato dal cuore, per raggiungere traguardi insperati. E a narrare gesti quotidiani d’affetto che, se uniti, possono davvero fare la differenza, è una protagonista scelta dall’autrice con grande coraggio: si tratta infatti di una ottantaquattrenne, vedova, solo parzialmente autonoma, che si muove su una sedia a rotelle e i cui rapporti con l’unica figlia sono incrinati da incomprensioni e prese di posizione sulle quali ciascuna delle due è irremovibile. Annarita è arzilla e sveglia, fiaccata nel corpo ma non nello spirito; è attenta alla realtà che la circonda e ancora capace, quando le riesce, di arrangiarsi come può di fronte alle difficoltà contingenti cui la sua condizione di disabile la obbliga. Sa guardare oltre l’apparenza di chi le sta di fronte e leggere il cuore della comunità in cui vive, così da coinvolgerla in un progetto ad ampio respiro, volto a tentare di mutare il destino segnato di una persona in difficoltà. Annarita è ostinata, capace di rimettersi in gioco nonostante gli acciacchi e le batoste di una vita che non le ha risparmiato nulla; sa che da un singolo seme, se ben annaffiato e curato, può nascere una pianta dalle radici ben piantate nel terreno. Ed è proprio questo il messaggio che desidera trasmettere alla giovane nipote, preziosa risorsa per il futuro, e ciò che chiede alla comunità in cui vive. Una storia che racconta la solitudine e le difficoltà quotidiane della terza età, ma non indulge nell’autocommiserazione. Tutt’altro! Si tratta di una vicenda che racconta il riscatto e la solidarietà; elogia la forza di volontà e il coraggio di osare; dà voce alla fatica di arrivare a fine mese, ma esorta a non mollare, perché non è mai troppo tardi per concedersi una nuova possibilità.