
Il freddo gli entra nelle ossa, il dolore lo paralizza. Solitudine, amarezza, sensi di colpa. È il lunedì che precede il Natale ma per lui non c’è aria di festa. Per fortuna sono arrivati Lele e Roby a soccorrerlo: il primo gli sta accanto, mentre il secondo corre al bar a prendergli qualcosa di caldo e commestibile. Sono gli amici di sempre, quelli con cui ha fumato la prima canna e preso la prima sbornia; quelli che gli vogliono bene nonostante tutto, nonostante a quarant’anni suonati lui ancora si comporti come un ragazzino stupido e irresponsabile. Come si è ridotto così? Quasi morto di freddo, denutrito e pieno di debiti dentro l’appartamento sfitto di suo zio? Pensa di meritare solo un grosso water come casa, perché questo è quello che un uomo di merda si merita. Aveva una moglie brasiliana da sballo e una figlia altrettanto bella, che ora sono andate via. Non ha capito nulla di ciò che vuol dire essere padre. Aveva una carriera sfolgorante e molti, molti quattrini. Come ha potuto lasciarsi scivolare via tutto dalle mani? I ricordi gli si affollano alla mente senza una sequenza logica, in ordine sparso. Cocaina, slot machine. E sesso, quanto sesso! Ovunque, nel mondo, c’era sempre qualcuna pronta a soddisfare le sue voglie. Le puttane sono sempre state una costante nella sua vita: la prima volta aveva vent’anni, nel 1994. A Parigi, durante la gita di quinta, dentro un palazzo basso e fatiscente nel quartiere di Montparnasse, dentro una stanza illuminata da luci rosse e soffuse. Lei era bella, lui se ne era innamorato. I compagni lo prendevano in giro. Lele e Roby, dopo averlo nutrito e consolato, lo accompagnano da suo fratello, l’unico che può prenderlo a casa e dargli l’ennesima possibilità di redenzione: ma stavolta deve promettere solennemente di entrare in clinica a disintossicarsi. Deve riprendersi la sua vita, guardarsi allo specchio, benché questo rimandi l’immagine terribile di un uomo imbruttito nel corpo e nello spirito. Lui che è sempre stato il più bello di tutti, il più dinamico, il più corteggiato. Lui, che dopo il diploma aveva deciso di fare un lungo viaggio in Sud America...
“(...) Tutti ci meritiamo una vita dignitosa e non sempre è così facile arrivarci. spesso dobbiamo prima attraversare l’inferno delle nostre vite e forse poi raggiungere la redenzione”: Non si muore mai abbastanza potrebbe essere riassunto così, nella frase pronunciata dal suo autore, il senigalliese Roberto Rovaldi, un autodidatta della scrittura – per sua stessa definizione, un appassionato di viaggi fuori, ma soprattutto dentro l’animo umano del quale si diverte a sviscerare vizi e debolezze, pregi e difetti. Emanuele Treschi, protagonista assoluto della storia, racconta con voce accorata la sua discesa agli inferi: il suo monologo scorre via veloce, istintivo, irruento, schizzato, a tratti confuso; è un lungo flashback cominciato vent’anni prima con un viaggio alla scoperta del Sud America, e culminato con la riabilitazione dentro una clinica. Nel mezzo, un’esistenza condotta all’insegna del mi-prendo-quello-che-voglio senza guardare in faccia nessuno. Treschi si sente forte, convinto di avere il mondo in pugno (una sensazione tutto sommato lecita per un ventenne curioso e affamato di esperienze) consapevolmente manovrato e indirizzato da chi la vita la conosce meglio di lui; sesso e soldi, il potente connubio che fa girare il mondo, sono le uniche cose che contano ‒ anche se difficili da gestire nelle mani inesperte e avide di un ragazzino ‒ mentre i sentimenti e i legami, quelli veri, sembrano non avere la minima importanza. È impossibile provare empatia per il giovane protagonista. Ad ogni pagina pensi: questo è una grossa testa di cavolo e, purtroppo, nient’altro che questo. Le fortune gli piovono addosso senza muovere un dito (l’unica fatica che fa, poverino, è quella di partecipare a festini esclusivi e slacciarsi continuamente i pantaloni!) facendolo risultare passivo, ripetitivo, piatto, un po’ come tutti i personaggi che gli ruotano attorno ‒ vedi la strafica brasiliana tutta da esibire che va in giro con gonne inguinali e ciabatte senza reggiseno, il viscido imprenditore ammanicato con la politica locale fatto di coca quel tanto che basta per intrattenersi con un paio di ragazze alla volta, o ancora, la bella quarantenne ricca e arrapata disposta ad attraversare l’oceano per andare a divertirsi con il suo giocattolino sessuale. L’intento dell’autore era senz’altro encomiabile: ha dedicato la sua storia ai suoi tre “quasi figli” (i figli della sua attuale compagna) evidentemente come monito e insegnamento, e in generale lui stesso ammette di voler dare ai suoi lettori un messaggio di speranza e di ottimismo: ma alla chiusura di un libro poco appassionante purtroppo non rimane granché su cui riflettere.