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Note sul suicidio

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Dieci giorni dopo aver consegnato al suo editore il manoscritto di Suicide, Edouard Levé si impiccò nel suo appartamento. Due anni dopo la pubblicazione di On suicide l’autore Jean Améry prese un’overdose di sonniferi. Circa diciott’anni dopo, Albert Camus rimase ucciso in un incidente d’auto, un modo assurdo di morire secondo una sua stessa affermazione, ma l’assurdità della sua morte si unì al fatto che aveva in tasca un biglietto ferroviario non utilizzato. Le Scritture non proibiscono direttamente il suicidio ma secondo i teologi cristiani, uccidendosi, una persona si arroga un potere sulla propria esistenza che solo Dio dovrebbe possedere. Per questo motivo il suicidio è considerato un peccato. Secondo Sant’Agostino (che formulò la teoria) e Tommaso D’Aquino (che la mise a punto), la vita è qualcosa che ci viene data su cui abbiamo diritto di uso ma non di potere. Uccidersi vuol dire esercitare un potere che è solo della divinità. La visione cristiana comincia ad entrare in crisi nel XVII secolo con l’affermarsi della scienza e della concezione materialistica della natura che considera la morte solo come la dissoluzione di gruppi di atomi, la trasformazione di materia in altro. Se però il suicidio è stato considerato un crimine, come punire il colpevole visto che non si possono punire i morti? Le leggi potevano intervenire sui familiari innanzitutto con una sepoltura ignominiosa e con il sequestro di tutti i beni. Il suicidio però potrebbe essere considerato un atto liberatorio. Come ha detto David Hume “non credo che nessun uomo abbia mai gettato al vento la sua vita, quando valeva la pena di conservarla”. Ma quali sono queste circostanze? La tesi del filosofo è che quando la vita è diventata insopportabile si è giustificati nel togliersela. La questione riguarda però i limiti della sopportazione. Nel 1670 Luigi XVI emanò una legge contro il suicidio in cui si decretava che il suicida dovesse essere trascinato a faccia in giù per le strade e poi impiccato e buttato in una discarica. Queste punizioni potranno essere valutate come ridicole e orribili ma non si deve dimenticare che in alcuni paesi musulmani ancora oggi il suicidio è un reato penale. In Oregon il suicidio medicalmente assistito è diventato legale solo nel 1997 e nello stato di New York, anche se il suicidio non è considerato un reato, è riconosciuto dallo Stato come “una grave offesa pubblica”. La credenza nella sacralità della vita porta anche a mantenere in vita una persona nonostante le sofferenze e il desiderio espresso di mettere fine ad un’esistenza inutile. Dal XIX secolo il discorso religioso è stato sostituito dall’avvento della psichiatria che ha considerato il suicidio non un peccato ma una malattia della mente. Nonostante ciò è ancora visto come una sorta di fallimento…

Simon Critchley è un rinomato filosofo britannico autore di molti libri, cura per la prestigiosa rivista “Granta” la collana “How to Read”. Suoi articoli sono apparsi sulla “London Review of Books” e su “The Independent”. L’autore, insoddisfatto dell’idea del suicidio come fallimento perché retaggio di modi di pensare che non reggono l’evoluzione della sensibilità contemporanea, in movimento come tutto il resto, dedica al tema un libro nel quale indaga l’idea di suicidio nel corso della storia e nella società attuale arrivando alla conclusione che sia il concetto stesso di suicidio a dover essere ripensato. Il suicidio non è immorale né codardo e ciò che l’autore cerca di fare in questo saggio è di capire il fenomeno, senza formulare giudizi o affermare principi morali come il diritto alla vita. Sulla scorta di Nietzsche e Cioran, Critchley scrive che “i veri pessimisti non si uccidono”, ma piuttosto che cedere all’ingenuo ottimismo che il suicidio possa cambiare davvero qualcosa, preferiscono assaporare il privilegio della sofferenza dandosi in pasto al mondo o dedicandosi all’amore, agli altri, a una nuova versione di loro stessi.