
Dal paese basco di Obaba si parte, ma soprattutto si arriva. Cercando di fuggire da qualcosa probabilmente, o con la voglia di cambiare, soprattutto con la speranza di attraversare un ponte grande come un arcobaleno, un erromako zubia o ponte di Roma, finendo per arrivare in un luogo in cui tutti i racconti possibili arrivano. Perciò è inutile fuggire, si potrebbe anche dire perché le storie dalle quali stavamo scappando, o che non avremmo mai immaginato di ascoltare, prima o poi arrivano, ci trovano, verranno narrate a casa di qualcuno, sotto una palma illuminata. Così è per lo straniero che arriva a Obaba, dove prende casa per un po’. Obaba è anche il paese dove Esteban Werfell scrive il suo diario, il ricordo della prima volta in cui, da bambino, mise piede in una chiesa e venne sopraffatto dall’emozione; il luogo dove ebbe la visione di una ragazzina, Maria Vockel, che lo attendeva ad Amburgo. Obaba è anche il luogo in cui, molti anni fa, un giovane disgraziato di nome Javier tornò in paese sotto le sembianze di un cinghiale bianco e, come quando era umano, venne perseguitato. “Non avete forse visto”, scriverà il canonico Lizardi, “come se ne stava in piazza, a guardare i bambini che giocavano con la neve? Non faceva forse Javer lo stesso?”. Il paese è piccolo, come piccola è una stella vista dalla Terra. Mano a mano che ci avviciniamo però, quando visitiamo il paese, scopriamo la sua superficie che è grande e complessa: zingari, pastori-angeli, vecchi nostalgici e stanze piene di ramarri. Ma ad Obaba non solo nascono storie, ma vi arrivano, anche da molto lontano. Come l’antica fiaba persiana che narra dell’uomo che, cercando di sfuggire alla Nera Signora, le finisce invece tra le braccia. Una fiaba che ci riporta a un certo Ismael, che da bambino infilò un ramarro nell’orecchio del compagno di scuola Albino María. E il ramarro, goloso di cervelli infantili, lo rese stupido...
“Obaba è un luogo, uno scenario, la Ko sta per “di”, A, è il determinante; K, il plurale. La traduzione letterale: gli o le di Obaba. La traduzione non letterale: Storie di Obaba”. Premessa necessaria, e prologo introduttivo fatto dall’autore stesso, queste poche frasi ci sono utili per varcare i confini del paese immaginario dove Bernardo Atxaga ci porta e poi da lì in molti altri luoghi immaginari e non. L’ospite del piccolo paese si siede alla finestra e sin dal primo momento è alla ricerca di una sola parola, l’unica adatta a terminare il libro che sta scrivendo; una parola piena di significati, una parola come quella tanto cercata dal filosofo Joubert che diceva: “se c’è un uomo tormentato dalla maledetta ambizione di mettere un intero libro dentro una pagina, tutta una pagina dentro una frase e questa frase dentro una parola, quello sono io”. La ricerca però lo porta a passare di storia in storia, che nel frattempo egli scrive in attesa di arrivare alla parola giusta. Mentre il tempo e i racconti scorrono, lo scrittore non si rende conto però di avere in mano il filo narrativo che stringe tra pollice e indice e con il quale crea una collana di piccole perle. In esse ci rispecchiamo, anche se un po’ deformati dalla superficie sferica. Eppure sempre ci riconosciamo. Non negli aneddoti, ma tra le parole. Quando si parla di memoria, ad esempio, che è come una diga. “Dà vita al nostro spirito, lo irrora. Ma come una diga, ha bisogno di canali di scolo per non straripare. Perché se straripa o se si rompe, distrugge tutto quello che trova sul suo cammino”. Il segreto che ci unisce alle storie di Bernardo Atxaga è naturalmente la parola che scopriamo comune, ed è proprio il linguaggio e la lingua, in questo caso l’euskera, a guidare il protagonista che, come in un viaggio dantesco, scortato dallo scrittore basco del Diciasettesimo secolo Pedro Daquerre Azpilicueta detto Axular, si accorge di come l’esukera sia simile a un’isola troppo solitaria, quasi arida per la mancanza di testi scritti che la rendano rigogliosa. “Per questo”, gli dice il Maestro, “ora l’isola ti appare piccola e limitata. Tuttavia, se si fossero scritti in basco tanti libri quanti se ne sono scritti in francese o in qualsiasi altra lingua, anche il basco potrebbe essere una lingua ricca e perfetta come quelle. Ma se così è, sono i baschi ad averne la colpa e non quest’isola.” All’uomo, allo scrittore, e alla sua volontà dunque viene affidata una missione: plagiare i racconti più belli, ovvero prendere ispirazione dalle grandi storie per raccontarne di nuove nel linguaggio letterario comune basco chiamato euskera batua. Nel 2005 il regista Montxo Armendáriz ha tratto dal libro un film interpretato da Pilar López de Ayala, Juan Diego Botto e Bárbara Lennie.
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