
Venezia, metà anni ’90. Alfredo è uno svogliato studente alle prese con un’infruttuosa tesi sulle brutte figure nell’opera di Dostoevskij. Carolina Groppo, in arte Maria Grazia Graticola, è un’introversa studentessa di Belle Arti che si mantiene disegnando organi genitali ai fumetti giapponesi per conto della rivista KissManga. I due si incontrano in un piovoso pomeriggio di aprile, su uno dei tanti vaporetti che attraversano i canali di Venezia. Non si tratta però di un incontro convenzionale: lei è alle prese con delle scariche fulminanti di diarrea e cade nel Canal Grande; lui la recupera temendo un tentativo di suicidio o chissà cos’altro. La porta a casa, le presta dei vestiti puliti. Iniziano a chiacchierare e Alfredo viene trafitto, improvvisamente, dalla freccia di Cupido. Un colpo di fulmine che lo porterà a ricostruire a poco a poco la vita e le abitudini di quella ragazza...
L’esordio narrativo di Tiziano Scarpa, Premio Strega nel 2009 per Stabat Mater, avviene nel 1996, anno di grande fermento per la narrativa italiana. È l’anno dei cannibali, alfieri di quella letteratura pop-trash nostrana che si diverte a smembrare, in una corsa all’eccesso, i luoghi comuni dell’Italietta borghese e provinciale, filtrati sapientemente attraverso gli umori e le iperboli tipiche del mondo pubblicitario e cinematografico. Scarpa, al pari di altri autori come Nove e Ammaniti (che con lui condividono l’essersi allontanati, col tempo, da questo genere), viene gettato in questo calderone avanguardistico e folle, e Occhi sulla graticola è tuttora considerata una delle opere di riferimento del movimento. Lo stile affilato e anarchico; il compiaciuto indugiare sul particolare ributtante e il caotico ronzare di un messaggio disincantato ma mai moraleggiante sono i punti chiave di questo breve romanzo non-romanzo. Romanzo perché, per quanto stravolti, gli stilemi narrativi sono comunque rispettati; non-romanzo perché la narrazione è costantemente inframmezzata da bizzarre digressioni dal sapore saggistico, riflessioni ai limiti dell’inverosimile e sperimentazioni linguistiche che vanno dal dialogo teatrale alla scrittura bustrofedica. In poco più di cento pagine il lettore viene calato in una Venezia putrida, nella quale i canali sono più ricettacolo di leptospirosi che suggestivi scorci turistici, nella quale giovani senza prospettiva si inseguono e inseguono un domani identico all’oggi, creando espedienti oscillanti tra lo stravagante e il comico per tirare avanti. E dietro le quinte di questo realistico teatro dell’assurdo una timida scintilla prova ad accendere il fuoco dell’amore. Mero esercizio di stile? Forse. Ma con (buon) gusto.
L’esordio narrativo di Tiziano Scarpa, Premio Strega nel 2009 per Stabat Mater, avviene nel 1996, anno di grande fermento per la narrativa italiana. È l’anno dei cannibali, alfieri di quella letteratura pop-trash nostrana che si diverte a smembrare, in una corsa all’eccesso, i luoghi comuni dell’Italietta borghese e provinciale, filtrati sapientemente attraverso gli umori e le iperboli tipiche del mondo pubblicitario e cinematografico. Scarpa, al pari di altri autori come Nove e Ammaniti (che con lui condividono l’essersi allontanati, col tempo, da questo genere), viene gettato in questo calderone avanguardistico e folle, e Occhi sulla graticola è tuttora considerata una delle opere di riferimento del movimento. Lo stile affilato e anarchico; il compiaciuto indugiare sul particolare ributtante e il caotico ronzare di un messaggio disincantato ma mai moraleggiante sono i punti chiave di questo breve romanzo non-romanzo. Romanzo perché, per quanto stravolti, gli stilemi narrativi sono comunque rispettati; non-romanzo perché la narrazione è costantemente inframmezzata da bizzarre digressioni dal sapore saggistico, riflessioni ai limiti dell’inverosimile e sperimentazioni linguistiche che vanno dal dialogo teatrale alla scrittura bustrofedica. In poco più di cento pagine il lettore viene calato in una Venezia putrida, nella quale i canali sono più ricettacolo di leptospirosi che suggestivi scorci turistici, nella quale giovani senza prospettiva si inseguono e inseguono un domani identico all’oggi, creando espedienti oscillanti tra lo stravagante e il comico per tirare avanti. E dietro le quinte di questo realistico teatro dell’assurdo una timida scintilla prova ad accendere il fuoco dell’amore. Mero esercizio di stile? Forse. Ma con (buon) gusto.