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Ogni giorno di felicità è una poesia che muore

Ogni giorno di felicità è una poesia che muore
C’è un abisso che va dall’amore alla nostalgia ed al senso freddo ed umidiccio dell’abbandono. In questo abisso - una sorta di girone dantesco di dannati col cuore senza fissa dimora - galleggiano frattaglie di solitudini e lontananze che portano ad incrociare parole per dare un nome alle cose in modo pratico ed essenziale. Si intrecciano amori timidi, si regalano ferite infiocchettate di ovvietà, si costruiscono storie incastrando ipotesi e sperando che davvero poi vada cosi: “Arriverà una notte in cui/ senza più dubbi/ saprai che m’ami/ mi vorrai con te/ addirittura avrai bisogno di me/ -cosa peraltro poco pratica-/ E mi cercherai/ Io in quel momento, approfittando del propizio/ magnetismo terrestre/ sarò solo/ a preparare del pane”. Si smarriscono strade presi da una vertigine da cui si vuole tornare indietro dopo che, disorientati, si è caduti dai propri piedi seguendo un’allucinazione di aerei crollati, di massicci d’oro, di prigioni: “E quindi dimmi/ dove posso trovare una fine/ che sia bella/ un orizzonte che non sia fosco/ una traiettoria che non sia proiettile/ una speranza, anche usata/ come scialletto/ per le serate di vento”…
La poesia o è triste o non è. Ogni giorno felice ne ammazza una, ogni giorno triste è florido e fecondo di versi. Versi che fanno il rumore di tibie sbattute tra loro; di teschi che rotolano bellamente lungo un piano inclinato. Poesia è il rumore del vetro che si infrange, lo scoppio improvviso di una fucilata cieca. E questo fa Talarico, sparare fucilate e infrangere vetri attento a spargerne i cocci in giro perché noi incauti lettori possiamo tagliarci i piedi  sprovvisti, come siamo, della grazia dei fachiri. Ma c’è di più, in questo sparpagliare fa esercizio di ironia sottile e non si abbandona a facili luoghi comuni crepuscolari: la vita è triste, sì, e questa è una raccolta di cose tristi, certo, ma fuori da una forma convenzionale di luttuosa commiserazione. C’è, in questo susseguirsi di vetri che si spaccano sotto i talloni, in questo sibilare di proiettili che tocca schivare come si fosse Matrix, una ricerca non formale delle immagini, una vertigine, quella sì, liberatoria e catartica che abbaglia per una manciata di secondi come succede con un flash sparato in faccia. Parole e visioni si incastrano dopo essersi rincorse, girate intorno ed abbracciate definitivamente in una maniera tale che non solo esista il verso, ma anche la sua fotografia.