
Guarda la stanza in penombra. C’è qualcosa che non va. La lampadina in alto, nel faretto di centro, è smorta. La luce sta aumentando poco alla volta. Resta a guardarla, cerca di capire che problemi abbia. L’intensità luminosa cresce sempre di più, di minuto in minuto, come se la sua energia si stesse espandendo nella stanza. Come un’esplosione… Ha cambiato il punto di osservazione, ha cambiato la sua prospettiva rispetto alle cose. E c’è una differenza fondamentale: a occhi chiusi riesce a immaginare il mondo della luce. La sua immaginazione proietta i ricordi dietro le palpebre e mostra le stelle create dalla sua mente. È come se al suo interno avesse milioni di soli, galassie. L’intero universo fluisce. Che importa essere un punto in un mondo vasto quando può essere il tutto in un solo punto? Non è luce quella che vede, certo, è il ricordo della luce. Ma un ricordo vivido che la sua mente sovrappone alla realtà. Vede, dietro le sue palpebre, dunque è realtà, dunque esiste. È un idolo che ha creato da sé, un dio della luce che può dominare a suo piacimento, mentre fuori è buio… Rimane a lungo in silenzio, deluso. Si è aggrappato a un’esile speranza, ma è testardo, ben più di quanto non voglia ammettere. Sa che è stupido, ma lo muove la sicurezza davanti all’occulto di chi sa che nessuno è presente a giudicare le sue azioni. Comincia a suonare con la stessa insensata sicurezza della scaramanzia. I suoi occhi sono aperti. Anche se è solo, suona per la ragazza della spiaggia, affinché lei lo senta. Forse quella musica libera che ha trovato per una manciata di minuti è persa per sempre…
La cosa che colpisce da subito dei protagonisti di questa raccolta di racconti davvero originale, capace di rinnovare e di dare nuova linfa a un genere e a una forma narrativa che tutto sommato sono decisamente canonici, è il fatto che hanno un’identità ma non un nome. Il nome e l’identità sono infatti di norma due concetti strettamente connessi, in verità, perché il nome definisce un’appartenenza, una unicità incontrovertibile: in questo caso specifico però Vicedomini riesce a connotare in maniera precisissima ambienti e caratteri, anche fra loro molto diversi, nonostante scelga di non fare ricorso alla denominazione classica. Il merito si deve al fatto che sa costruire con semplicità delle trame universali: negli undici brevi, asciutti, densi, credibili racconti, in cui dà vita a incontri in contesti di volta in volta quotidiani e urbani ma anche ricchi di episodi surreali e distopici, utilizzando per lo più la forma del monologo, che fa sì che i protagonisti sembrino quasi lasciarsi andare ognuno a un vero e proprio flusso di coscienza, sono rappresentate in maniera simbolica le varie sfaccettature della vita, di ogni vita, di ogni individuo che può trovarsi di fronte al dolore, alla solitudine, alla paura, allo straniamento, all’incapacità di comunicare, capire, farsi capire. E la notte stessa è un’allegoria: se la luce rappresenta infatti la convivialità, l’oscurità, che annulla le differenze perché le rende invisibili, ma che al tempo stesso appare di volta in volta diversa, a seconda del contesto, in realtà è emblematica dell’isolamento diffuso e che, in base alla propria sensibilità, sempre più spesso si trova a sperimentare l’uomo moderno, in un mondo ormai troppo materiale e troppo poco umano.