
Timbuctu, Mali. Fine 2010. Nell’accampamento dell’allegra famiglia di Aghaly Ag Hussein è l’ora dello zuhr, mezzogiorno, il momento della preghiera islamica recitata, la seconda delle cinque preghiere quotidiane. Rhissa, il figlio maggiore del patriarca, appare preoccupato perché il suo dispettoso fratello Ibrahim non è ancora tornato, manca dalla mattina. La moglie del patriarca Fatma Walette Sidi-Mohamed è allettata da molte lune e gioca con Ahmed, il nipote di nove anni e terzo figlio di Rhissa, il quale, d’intesa con la propria moglie e con quella incinta di Ibrahim, va a prendere il dromedario per cercarlo sulla strada verso Timbuctu. Dopo qualche chilometro trova solo il corpo, sdraiato su un fico, appoggiato sulla schiena, coperto di sabbia e con il volto insanguinato, è morto. Lo carica sul dromedario e va in commissariato. Famiglia e amici sono convinti che il responsabile vada individuato nella comunità apparentata (cugini che non si amano) di Saïf Ag Youssef. Intervento pubblico immediato? Spedizione punitiva privata? A fatica si concorda poco tempo per qualche preliminare procedura ufficiale. Il fatto è che quasi in contemporanea c’è una sparatoria contro un cittadino francese. Le due storie sono collegate? C’è un rischio incombente di terrorismo islamista? Di traffico di droga e rapimenti? Si muove l’ambasciata francese. Nella capitale Bamako si convoca una riunione al vertice e chiedono al commissario Habib di andare direttamente sul posto, accompagnato da due giovani, il suo fido assistente e un agente dei servizi francesi. Partono in battello verso l’area fluviale del Niger, un paesaggio indimenticabile. L’indagine fra i tuareg avrà bisogno di conoscenze e introspezioni sofisticate, come nello stile del mitico personaggio...
Non perdetevelo! Il grande maliano Moussa Konatè (Kita, 1951 – Limoges, 2013) ha insegnato e scritto a lungo, romanzi e saggi, opere per ragazzi e per il teatro. Fra l’altro, onesti umili capolavori noir. Letteratura di genere, certo, consapevolmente, ma differente da quella che mai avete potuto leggere, africana subsahariana. Niente a che vedere con il giallo classico, con l’hard-boiled, con il polar o con il noir occidentale, pur se è evidente che questi generi o sottogeneri sono stati tutti sentimentalmente digeriti. Konaté mette in campo un’altra portentosa cultura civile, che prevede (come ogni cultura sociale) pure crimini e misfatti, individuali e collettivi, per ragioni sia contingenti che strutturali. A proprio modo, assolutamente non esotico né prettamente pedagogico. La racconta facendoci conoscere tradizioni e abitudini, simboli e codici, corruzione e integralismo, assetti di famiglie e poteri, storia e geografia del Mali e di parte dell’Africa. Noir nel senso di romanzi che fanno capire differenze e fratture della società in cui sono ambientati. La narrazione è in terza varia al passato, prevalentemente sui poliziotti. Investigare in Mali è diverso che indagare in Francia: i costumi variano da una regione all’altra; l’islam e il cristianesimo convivono e si mischiano con l’animismo; il Mali di ieri non si ritiene vinto dal Mali dei tempi moderni; c’è sempre un qualche marabutto indovino del quale tenere (poco) conto; condurre un’indagine a cavallo, sul dorso di un dromedario o a piedi, nel deserto, non è proprio la stessa cosa che correre in macchina in una città francese. Una meraviglia di stile e contenuto, di ritmo e dialoghi, competenti ironici originali. Il probo e maturo protagonista è Habib Kéita, commissario capo della squadra anticrimine (qui prossimo alle dimissioni), discende dalla stirpe dell’imperatore fondatore della grande etnia dei mandingo, ricchi importanti studi dai bianchi in Francia (e dai rossi a Bordeaux, ma in patria si è riconvertito all’acqua); ha una cheta discreta moglie tradizionale e tre cari giocosi figli (qui il maggiore è adolescente). L’erede prediletto è il giovane intrepido collaboratore ispettore Sosso Traoré (qui promosso capitano). Cucina, bevande, melodie della meravigliosa leggendaria Timbuctu: vien voglia di partire, portatevelo!