
Quattro generazioni racchiuse in un pacchetto di fotografie che Aurelia, che vive a Milano, riporta ai propri genitori anziani nel casale-osteria della frazioncina di Campetto di sopra, campagna Parmense. Nelle foto, lo stesso casale, un tempo casa, emporio ed osteria nella quale Aurelia è cresciuta con genitori, fratelli e nonni materni, in una convivenza forzata imposta da questi ultimi. Erano gli anni del boom economico, ora l’unico modo per vedere la famiglia riunita è guardare quelle immagini; l’osteria è stata data in gestione, i nonni sono morti ed i figli hanno preso ciascuno la propria strada da tempo. Luisa, la madre d’Aurelia, dà uno sguardo veloce alle foto e le mette via… Ogni volta che Aurelia torna dai suoi, in quel casone che è diventato un affastellarsi di oggetti senza criterio che sembrano evocare stralci di vita ancora in cerca di collocazione, prova un’inquietudine della quale si sente quasi colpevole. Vorrebbe restare, vorrebbe fuggire. Vorrebbe condividere una vicinanza ed una comprensione impossibili da comunicare in una famiglia nella quale le esternazioni d’affetto sono da sempre bandite. Da una sorta di pudore forse, o da rancori antichi e mai sanati. O forse dagli stilemi di una generazione per la quale la fatica ed il sacrificio per i figli esauriva tutto ciò che fosse necessario dare loro. Un’abnegazione che i genitori di Aurelia hanno pagato ciascuno a modo proprio: ostaggi a loro volta dei genitori di Luisa, madre di Aurelia, che hanno incanalato la vita di figlia e genero nel binario dei doveri imposti. Eppure Luisa avrebbe voluto solo vivere a Parma e fare la sarta anziché rintanarsi in una frazione rurale: c’era riuscita solo per un breve periodo poi, il trasferimento in campagna col marito e la vita decisa dai genitori-padroni. “I cinque mesi nella soffitta di Parma sono stati i più belli della mia vita”. Cinque mesi su settant’anni: forse Luisa è in credito con il destino… Aurelia, con occhi adulti ripercorre con gli occhi interiori di lei stessa bambina, le vicende della propria infanzia, dando una chiave d’interpretazione all’esistenza dei propri genitori, di sua madre in particolare. Quella madre che, prigioniera di quel casale, neanche quando ormai avrebbe potuto andarsene, s’è più mossa da lì…
“La mia generazione è stata la più maltrattata. Siamo state schiave dei genitori e contestate da figli ribelli. Nessuno ha pensato a noi. Abbiamo solo lavorato per gli altri e non ci hanno nemmeno detto grazie”. È verissimo. Le vicende spicciole e personali osservate dalla protagonista costituiscono un romanzo che riguarda dinamiche che coinvolgono più generazioni ed i cui retaggi sono tutt’ora presenti. Rappresentate in un romanzo familiare che è anche quello di una nazione, un saggio di memoria sociale attraversato da sentimenti tanto irrisolti quanto autentici. È anche l’affresco di quel periodo non così lontano nel quale era previsto che ai maschi fosse vietato mostrare sentimenti, alle femmine di avere qualsiasi velleità: ostaggio inoltre, queste ultime, dei genitori prima e del marito poi. Genitori col compito di allevare figli dai quali pretendere risultati che li ripagassero dei loro sacrifici. E nessuno che venisse a dirti “bravo”. Con una scrittura di un’efficacia disarmante per la sua nettezza che non lascia scappatoie, Mariangela Mianiti compone un’immagine reale e concreta dalla quale è impossibile discostare lo sguardo per la verità struggente, dolorosa ed anche dolce, che trasfonde. Una concretezza contadina si direbbe: pane al pane, niente balle. A questo però si aggiunge il tocco artistico dell’autrice, “artistico” nel senso più essenziale del termine: la capacità di conferire un’anima a tutto ciò che è narrato, creando, con chi osserva, legge ed ascolta, un canale di comunicazione profondo che va al di là della forma. Una forma sottile e trasparente peraltro, come l’organza. Bello, autentico, da amare.
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