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Ota Benga

Filadelfia, primi del ‘900. La giovane Arianna Sarris sta assistendo ad un incontro di boxe assieme al suo fidanzato Ruud Barron, che da sempre le magnifica quello sport, spettacolo ineguagliabile a sentir lui. Claude Brooks detto “Black Bill” e Morris Harris, due neri massici e potenti, sfideranno in sequenza il letale Jack Johnson, “il gigante di Galveston”. Il primo incontro dura pochi secondi, perché Johnson con due tremendi pugni rompe il naso a Brooks, che cadendo si spezza anche un polso, si rialza a fatica e viene messo KO senza pietà. Johnson si batte il petto e lancia un ruggito che gela il sangue. È poi il turno di Harris, ma i due ragazzi non rimangono a vedere l’altro massacro annunciato, hanno altri progetti, corrono a fare l’amore con la foga dei loro anni. Arianna e Ruud lavorano a New York, allo zoo del Bronx, che da qualche tempo ha un “ospite” di cui si parla molto: Ota Benga, un pigmeo mbuti. È un essere umano di un metro e venticinque centimetri, con aguzzi denti gialli e tanta rabbia negli occhi, ad Ariana quando lo guarda non pare nemmeno reale. Lo hanno catturato dei mercanti di schiavi sulle rive del fiume Kasai, poi è stato comprato per un’oncia di sale e un rotolo di tessuto (non per un vile commercio, ma come atto umanitario: era l’unico modo per liberarlo) dal missionario Samuel Phillips Verner, che ha convinto lui e altri pigmei a seguirlo in America prospettando loro un radioso futuro di civiltà e libertà. Una volta a New York però i pigmei, terrorizzati, sono fuggiti: Ota Benga è finito chissà come ad essere esibito alla fiera universale di St. Louis del 1904 assieme al capo apache Geronimo, a una coppia di eschimesi e a un gruppo di igorot. Alla fine il povero pigmeo è stato preso sotto l’ala del Museo di Storia Naturale di New York, dove un gruppo di antropologi gli hanno promesso ospitalità in cambio del permesso di studiarlo. Quando però un giorno Daniel Rockfeller, il principale finanziatore del Museo, ha tentato di prenderlo in braccio come un bambino, lui che è un guerriero, Ota Benga lo ha aggredito. Fine dell’alloggio al Museo e trasferimento allo zoo. In gabbia, assieme all’orangutan di nome Dohong…

Antonio Monda, professore alla NYU Tisch School of the Arts, direttore dei festival letterari “Le Conversazioni” e “Open Roads” e della Festa del Cinema di Roma, giunge al terzo capitolo della sua ambiziosa saga in dieci volumi sulla storia americana, una Comédie humaine di Honoré de Balzac in salsa barbecue. E lo fa raccontando l’affascinante e terribile vicenda umana – realmente accaduta – di Ota Benga (1883-1916), un pigmeo della foresta equatoriale del Congo sradicato dalla sua terra e portato negli Stati uniti all’alba del ‘900 in nome della scienza: ritenuto erroneamente un “anello mancante” dell’evoluzione umana, cioè una sorta di via di mezzo tra un uomo e una scimmia antropomorfa, fu esposto allo zoo di New York come un animale su suggerimento di Madison Grant, segretario della New York Zoological Society e scienziato di fama, finché le vibranti proteste della comunità nera americana indussero il sindaco a liberarlo e affidarlo alle cure del reverendo James M. Gordon. Costui portò Ota Benga in Virginia, dove l’uomo imparò a leggere e scrivere e fu avviato al lavoro manuale, ma non per questo riuscì a ritrovare dignità e felicità, tanto che si suicidò a soli 32 anni. Una storia di ordinario razzismo, ma che presenta aspetti complessi: i torturatori di Ota Benga sono darwinisti e progressisti, ritengono di agire in nome della scienza. I suoi liberatori sono credenti e creazionisti, e agiscono più per calcolo politico che per pietà. Anche il controverso missionario Samuel Phillips Verner, che nel libro di Monda forse viene mostrato più idealista di quanto non fosse in realtà, era un brav’uomo ma lavorava come “procacciatore” di meraviglie indigene per i musei e le fiere degli Usa, attività non certo nobile. L’atroce storia del pigmeo in gabbia contrasta dolorosamente non solo con la targa del progresso e della scienza idealmente affissa sotto alla gabbia, ma con un’altra storia, quella della protagonista Arianna, figlia di immigrati greci ma esempio elettrizzante di emancipazione femminile. La chiave del romanzo probabilmente sta nella frase in esergo che Monda dedica ai figli: “(…) perché l’America mantenga la sua promessa”. American dream, sort of.