
Se si trova in questa situazione c’è una ragione ben precisa. Barbie sa che molti la considereranno una ragione stupida, futile. Ma queste persone probabilmente sono donne che ce l’hanno fatta, che sono riuscite ad abbandonare definitivamente i loro paesini d’origine per vivere una vita piena, appagante ed eccitante. Oppure sono uomini, dunque non sanno che cosa significhi essere una ragazza, una donna. Perché è inutile negarlo, se sei un uomo la vita è comunque più semplice. Soprattutto quando si parla di difetti fisici. Se sei un uomo, questi ti rendono unico, particolare. Diventano un segno distintivo. Se sei una donna è diverso. Se segnato da imperfezioni, il corpo femminile diventa difficile da accettare sia dagli altri che da se stesse, infatti “se sei donna il senso di inadeguatezza te lo spalmano addosso insieme alla pasta di zinco nelle prime settimane di vita; e non te lo togli più”. Quindi ecco il movente che ha portato Barbie a compiere il gesto avventato che l’ha condotta in un letto di ospedale: le tette. Barbie è bella, attraente, snella – mangiare non è tra le sue esigenze primarie – insomma, ha un corpo perfetto ma ha le “tette stronze”. Delle tette stizzose che provocano sguardi di delusione ogni volta che si sfila la maglietta. Quindi sì, delle tette perfette sarebbero state il suo biglietto di sola andata per una nuova vita, il golden ticket per vivere finalmente quella realtà urbana dove tutto è “fashion”, “glamour” e “cool”. Avrebbe chiuso definitivamente con la noiosa e monotona vita di provincia a Ogno: sempre le stesse facce, sempre gli stessi baretti, sempre gli stessi rapporti di insofferenza con dei genitori che ai suoi occhi non sono altro che sfigati. Per fortuna Barbie ha Maicol, il suo amico gay e collega con cui lavora come shampista al salone Hair&Beauty di proprietà del Ric, quarantenne gay anch’egli insofferente al soffocante ambiente di provincia. Una provincia che sotto una coltre ipocrita di perbenismo, parrocchie, feste di paese, matrimoni e fidanzatini storici, cela un cuore pulsante di disagio sociale e psicologico, di frustrazione e paralisi, di insoddisfazione, segreti, rabbia e violenza...
Padania blues è il titolo catchy dell’ultimo romanzo di Nadia Busato, un titolo che ha il merito di suggerire l’essenza della storia senza dire esplicitamente troppo. Gioca infatti sull’accostamento simbolico tra il neologismo (ormai totalmente lessicalizzato) “Padania” – con il suo riferimento alla Macroregione in senso politico-economico indipendentista – e “blues”, genere musicale strettamente correlato alla condizione di schiavitù degli afroamericani e al conseguente sentimento di male di vivere e di inquietudine interiore. Nel romanzo, la scrittrice mette in scena le storie di Barbie e dei suoi genitori, di Maicol, del Ric, del suo compagno “il Gian” e di molti altri personaggi, prendendo le mosse da un fatto di cronaca locale, frutto di una provincia imbevuta di un clima culturale tanto violento quanto sotteso. Nel libro, i personaggi sono accomunati dal desiderio di rifuggire dalla vita che conducono per inseguire un desiderio tanto impellente quanto sbagliato, o quantomeno perseguito con motivazioni e azioni sbagliate. Il centro della narrazione è Barbie, soprannome parlante che suggerisce fin da subito le ambizioni plasticose e superficiali di una ragazza poco più che ventenne il cui sogno è entrare a far parte del patinato mondo dello star system. Per conseguire un riscatto sociale, morale, economico e affrancarsi non solo dalla provincia ma anche dal prodotto per eccellenza del patriarcato, ossia la donna come moglie-madre-casalinga, Barbie ne insegue tuttavia un altro, quello della donna-oggetto buona solo da rimirare, fotografare, sfruttare. Facendosi trattare alla stregua della celebre bambola Mattel, o come la proverbiale bambola cantata da Patty Pravo, o peggio ancora come un’esemplare di quelle gonfiabili, la ragazza finirà per farsi coinvolgere in un’impresa avventata, obnubilata dalla visione di un futuro più radioso.