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Papà

Papà

Parigi, 18 settembre 2018. Régis sta guardando un documentario dal titolo La polizia di Vichy e la sua attenzione viene catturata dall’apparizione dell’appartamento di Marsiglia dove è cresciuto. Rue Marius-Jauffret numero 4. Ma c’è dell’altro: un frammento di pochissimi secondi che lascia Régis a bocca aperta davanti alla tv. Due uomini della Gestapo stanno trascinando un individuo fuori dal palazzo. L’uomo è in manette, le immagini non sono limpidissime, ma Régis lo riconosce: quell’uomo è suo padre, Alfred. La voce narrante del documentario colloca quella scena nel 1943. All’epoca i suoi genitori non si conoscevano ancora. Régis resta esterrefatto da quello che vede. Non sa molto del padre, morto trent’anni prima, ma sente il bisogno di capire il significato di quei fotogrammi, così inizia a indagare. Sottopone la foto a sua madre Madeleine che, ormai ultracentenaria, non riesce a riconoscerlo in quei fotogrammi sgranati. Allora si rivolge ai parenti ancora in vita e tutti gli confermano che l’uomo del documentario è proprio Alfred. Le domande adesso si moltiplicano. Intanto, è una scena reale o una ricostruzione? Alfred è stato davvero arrestato nel 1943? E se sì, perché?

Papà, l’ultima fatica letteraria di Régis Jauffret, è un romanzo intimo e caldo. Vedere il padre in quel documentario permette all’autore di cominciare un percorso di (ri)scoperta dell’uomo, morto trent’anni prima e mai veramente conosciuto. La visione di quei fotogrammi scatena tutto: “Se non avessi visto quelle immagini saresti rimasto nelle fogne della mia memoria”, e inizia un viaggio, per Régis, che lo porta a scandagliare il passato dei suoi genitori, a livello intimo, a tratti scandaloso e osceno, dal momento in cui indaga in modo approfondito anche la loro sessualità. Parla del padre come se fosse un fantasma, lo immagina laddove non riesce a ricordarlo. E allo stesso tempo gli si rivolge come se il libro fosse diretto solo a lui e il lettore fosse un intruso, un voyeur che rimane sulla soglia a cercare di capire e mettere insieme i pezzi di un’esistenza che nemmeno l’autore sembra riuscire a carpire fino in fondo. D’altra parte, è impossibile ricreare e spiegare la complessità di un’esistenza mediante delle parole, mediante un libro. Così come è difficile rendere chiaramente i rapporti. L’autore ci prova e, nella contraddittorietà espositiva, ci dà un’idea molto chiara dei sentimenti che possono intercorrere nelle relazioni tra genitori e figli: “Comunque ti amo, Alfred”; “Alfred, spesso non ti amo”; “Papà, vorrei tanto amarti”. Nel tentativo di scoprire qualcosa sul padre, Jauffret compone un’opera dal fortissimo impatto emotivo e riesce a tradurre in parole le complicate, edipiche, contraddittorie, universali e allo stesso tempo individualissime, relazioni tra genitori e figli. Ma soprattutto, nel riflesso dell’uomo che sta cercando di disegnare, riesce a comprendersi egli stesso come uomo e come padre.