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Più donne che uomini

Più donne che uomini
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Inghilterra, vigilia del primo giorno di scuola. Josephine Napier, direttrice di un istituto femminile, riceve una ad una le componenti del corpo insegnanti e le raduna per il solito tè di benvenuto. Ci sono la signorina Luke, la signorina Rosetti, la signorina Munday, la signora Chattaway – l’unica maritata del gruppo, quantomeno fino alla prematura morte del marito – e infine la signorina Keats, la nuova arrivata. Donne che dedicano una all’altra i due terzi delle loro vite, se calcoliamo le ore e giorni che trascorrono al lavoro paragonati al tempo di vacanza. La sera stessa, Josephine è invitata a cena dal fratello Jonathan, il cui protégé Felix chiede e ottiene un lavoro come insegnante di disegno. Del resto, afferma lui, suo padre gli ha sempre detto che per i suoi modi assomiglia più a una donna, e non condivide l’idea che l’insegnamento sia un mestiere così svilente per un gentiluomo. Simon e Gabriel, marito e figliastro di Josephine, hanno opinioni discordanti a riguardo, ma è comunque lei a prendere le decisioni. Al rientro a casa, Josephine trova alla porta una vecchia amica, Elizabeth, cui offre un lavoro come governante per dare aiuto economico a lei e alla figlia. Questo, pur sapendo che a suo tempo Elizabeth era molto attratta da Simon, e che ne era corrisposta...

Ciò che colpisce fin dalle prime righe è lo stile pomposo e affettato dei dialoghi. Figli del loro tempo, certo, poiché il romanzo ha visto la luce nel 1933 ed è ambientato ancor prima. Definirli “formali” sarebbe troppo poco, perché ciò a cui assistiamo è una vera e propria costruzione a tavolino dei rapporti umani. Tutto sembra definito al millimetro da un copione, perfino le chiacchierate tra marito e moglie o tra fratello e sorella. Il libro è scritto come un’opera teatrale, con tempi serratissimi e una voce narrante quasi invisibile, a cui poco importa approfondire o motivare l’interiorità dei protagonisti. Il loro modo di esprimersi è talmente irreale da sfociare nella noia, ma se guardiamo oltre il mero esercizio di stile, possiamo coglierne una metafora sulla società vittoriana e un richiamo ai Wilde e Stevenson (per citarne solo un paio) che hanno descritto altrettanto bene relazioni costruite, artificiose, finte. Nessuno è mai fino in fondo chi dice di essere, ma mostra appena quel poco che la società ritiene accettabile – o viceversa, quel tanto da apparire socialmente inaccettabili. L’apparenza ha però la consistenza di un cristallo, basta un nonnulla per sgretolare il tutto e lasciare visibili solo i segreti che tanto ci si è sforzati di sotterrare. Ivy Compton-Burnett si mostra eccellente in questo colpo di teatro.