Quando nel mondo della poesia si fa entrare il mondo che sta attorno,
senza filtri o selezioni, gioia, dolore, tristezza e tutto ciò che è
l’umano sentire e vedere è lì immagazzinato. C’è posto per I bambini di
Scampia, “Ho sentito / Una storia cruda / Che parla di bambini / Che
vivono per la strada / I loro destini / Uno spino una pista una spada” e
per un’eventuale redenzione dei mostri che li circondano, “Ora hai deciso
/ E una nuova strada / Il cuore prende /Ora sai che la / Malavita non
paga”. Il poeta, che per sua stessa ammissione “con le sue parole /
L’anima disseta” ha anche necessità di fermarsi, anzi di soffermarsi su sé
stesso “Non voglio stare / Sempre al centro / Preferisco stare / In un
angolo / E scavarmi dentro / Pensieri introspettivi / Che si muovono
piano”. E se la vita, e il mondo in cui essa si srotola, è fatta di bianco
e di nero, allora il compositore dei versi è, si vedrà, come una raccolta
di ossimori: “Io sono il bianco / Io sono il nero / […] Io sono il dubbio
e l’incertezza / Io sono l’allegria / E la tristezza / Io sono il pugno /
E la carezza”, perché il compito del poeta è proprio “Trasformare la vita
/ In poesia / Con la penna stretta / Tra le dita / Che nel foglio /
Scivola via”…

Giampaolo Bellucci, umbro, è autore molto prolifico. In questa sua ultima
raccolta, come il titolo già fa intendere, ci racconta in poesia i
contrasti e i contrari della vita quotidiana, il brutto e il bello. I
testi non paiono particolarmente ricchi di inventiva e nemmeno di tutti
quei “dettagli” imprescindibili che caratterizzano poesia. La poesia non
utilizza il linguaggio comune e quotidiano, cioè a parità di lessico, ché
le parole quelle sono (senza andare a veleggiare nel mondo degli
improbabili neologismi o a arrampicarsi sulle falesie del linguaggio
metasemantico) ciò che fa di una poesia una poesia riuscita è il modo in
cui le parole vengono legate, avvicinate; si prende a manciate dal
banchetto delle metafore e di tutta una serie (lunga) di altre figure
retoriche. Se manca questo, se il linguaggio è troppo semplice e manca di
una qualità essenziale che è l’ambiguità, non nasce quel rapporto
necessario e sufficiente che deve crearsi tra poeta e lettore. Senza
disturbare Empson o Eco, che benissimo spiegano il concetto di ambiguità,
cosa significa? Significa che un testo che rechi un messaggio (le poesie
ne hanno uno) immediatamente svelato non permette al lettore di mettere in
atto le sue capacità di deduzione perché non può intervenire su un testo
che nulla cela e che tutto prepara già dinnanzi. Queste poesie di Bellucci
hanno un grado di ambiguità troppo minimale. Altro discorso riguarda le
rime, che sono presenti a spot in quasi tutte le poesie, ma sono rime,
come dire, alla rinfusa, non seguono nessuna regola: non sono baciate, non
sono incatenate, non sono alternate e via dicendo. È chiaro che il poeta
può fare della sua poesia ciò che desidera, ma occorrerebbe mantenere un
certo equilibrio interno. Per finire, la presenza di molti refusi, alcuni
veramente sconcertanti (“ha” al posto di “a” preposizione, “và” al posto
del corretto “va”) indeboliscono un libro già non perfettamente riuscito.