
Per Marie Colvin fare il corrispondente di guerra significa visitare di persona luoghi sconvolti dal caos e straziati dalla distruzione, annichiliti dal dolore e dalla morte, per darne testimonianza diretta. Solo così si giunge alla verità, verificando le fonti ed esponendosi ad imprevisti. Ha conosciuto uomini, che ascesi dal nulla al potere, hanno arbitrariamente provocato l’annientamento di città e di intere società, come Božidar Dogančić in Kosovo. Il suo lavoro non ha niente di comodo. In fuga dalla Cecenia, nel gennaio del 2000, ha attraversato l’unica strada percorribile per arrivare in Georgia, una catena montuosa a 3600 metri di quota, senza attrezzatura da montagna. In questa occasione, due vecchi contadini le hanno dato rifugio e rifocillato tutto il gruppo. La gente, quella che per prima subisce i disagi della guerra, è la prima ad aiutare, condividendo il poco che ha. La voce delle persone oppresse deve essere fatta sentire e chi può scrivere la verità lo faccia. Tra una sigaretta e l’altra, sotto i bombardamenti a Dili, Timor Est, non le manca di ironia. Tutti i corrispondenti esteri, partiti, solo tre donne a tenere la posizione. Il suo commento secco e lapidario? “Non ci sono più gli uomini di una volta”. In Sri Lanka dopo un incontro con i leader delle Tigri Tamil è stata aggredita, ha perso un occhio per le schegge e si è resa conto che poteva morire. La guerra non è mai pulita, come tentano di farla apparire certi video in TV. La guerra è terrore, fango, persone morte ammazzate e metallo rovente. La guerra è fatta di madri, padri, figli, figlie e bambini devastati da un lutto inconsolabile, uguale in tutte le parti del mondo…
Marie Catherine Colvin (1956-2012) è stata una giornalista americana. Ha iniziato a lavorare per l’United Press International e nel 1984 è diventata capo del bureau di Parigi dell’UPI. Si è poi trasferita al “Sunday Times” come corrispondente in Medio Oriente. È stata la prima giornalista ad intervistare Gheddafi in Libia. È morta il 22 febbraio 2012 in Siria, nel fatiscente centro per le comunicazioni, durante un attacco missilistico, mentre documentava l’assedio di Homs. Con lei hanno perso la vita il fotografo Paul Conroy, con la Colvin da sempre, il fotografo francese Rémi Ochlik, il traduttore siriano Wael al-Omar e la giornalista francese Edith Bouvier. Nel 2018 è uscito un film, basato sulla sua vita, A private war, diretto da Matthew Heineman e con Rosamund Pike nei panni della reporter. La trentennale carriera di Marie Colvin l’ha portata sulle linee del fronte delle zone di guerra in tutto il mondo. È ricordata per il coraggio, la tenacia, le capacità e la grande compassione nell’avvicinare le vittime, le persone che non hanno voce. Ha vinto numerosi premi per i suoi articoli: Courage in Journalism Award, British Press Award, Foreign Press International’s Journalist of the Year Award. Sicuramente è considerata la più grande corrispondente di guerra della sua generazione. Il volume In prima linea, edito da Bompiani nella collana Munizioni, è la raccolta della sua produzione giornalistica, cominciando da un articolo del gennaio 1987 dal centro di Bassora assediata dalle forze iraniane. Fino all’ultimo pezzo, quello del 19 febbraio 2012, scritto da Homs, martoriata dal fuoco. Secondo la Colvin è una menzogna che l’esercito siriano stia inseguendo dei terroristi, stanno solo bombardando una città abitata da civili affamati e infreddoliti. Diviso in tre parti, il libro propone un itinerario di grandi e piccole storie, restituendo al lettore una memoria. Un ripasso di storia contemporanea: la Guerra Iran-Iraq, la Guerra nel Golfo, i conflitti in Kosovo, in Cecenia, in Etiopia, nella Sierra Leone, nello Sri Lanka, le varie crisi in Medio Oriente, le Primavere Arabe, la caduta di Gheddafi, di Saddam Hussein, il conflitto tra Palestina ed Israele. Una scrittura asciutta e diretta, che non concede distrazioni. Ogni parola è preziosa per capire, collegamenti politici o strategici che possono sfuggire. Spesso è stata rivolta alla giornalista la domanda su che cosa fosse il coraggio e lei ha sempre risposto che il coraggio è non avere paura di avere paura, rendersi umani e al tempo stesso consapevoli. Il lavoro di corrispondente di guerra era stato per anni appannaggio maschile, ma oggi le cose sono decisamente cambiate. Da donna non ha mai avuto bisogno di ricorrere ad astuzie femminili. La giornalista sciantosa è solo un vecchio cliché, una donna deve farsi rispettare per la sua competenza e adattabilità, altrimenti si può andare poco oltre una bevuta, niente articolo e ancor meno stima. L’impegno dei giornalisti è cercare di scoprire la verità senza farsela imboccare da nessuno, guardare con i propri occhi e non dovrebbe fare differenza se siano maschili o femminili. Tante sono le voci che sono state messe a tacere con violenza, che sono arrivate troppo vicine alla verità e ai poteri forti. Come dimenticare Ilaria Alpi (Somalia 1994), Anna Stepanova Politkovskaja (Mosca 2006), Dafne Caruana Galizia (Malta 2017), tre esempi di una schiera di uomini e donne che hanno pagato il prezzo più alto per il loro lavoro. In prima linea è un libro che racconta la realtà. Una narrazione fatta di attenzione, con la cura di un saggio vero e proprio. È un libro che pur parlando di luoghi lontani, ci riguarda da vicino, perché nutrire un dubbio, ricercare fonti plurali di notizie non è solo il dovere di un bravo giornalista, ma è anche il nostro, di bravi cittadini del mondo.