
Julian è costretto ad accompagnare in bus la madre alla consueta riunione del mercoledì sera per le persone che devono perdere peso. Il dottore le ha suggerito di perdere dieci chili per via della sua pressione alta e la donna non ha intenzione di viaggiare da sola, la sera. Julian non sopporta quell’impegno, ma la madre è capace di rammentargli tutto ciò che ha fatto per lui, per farlo sentire in colpa: dargli un tetto, sfamarlo, pagargli gli studi. Ha finito l’università da un anno e ancora è costretto a farsi mantenere da lei, che vive nel ricordo di una ricchezza scomparsa, quando possedevano terreni e “i negri” stavano al loro posto... La signora May osserva sconsolata il prato devastato dal toro sconosciuto che durante la notte si è messo a brucare fuori dalla sua finestra. Deve chiedere al suo fattore, il signor Greenleaf di rinchiuderlo prima che raggiunga le mucche e le ingravidi, rovinandole la mandria. L’uomo, che lavora per lei da 15 anni ed è il peggiore degli scansafatiche, ignora chi sia il proprietario dell’animale e non sembra pronto a rinchiuderlo prima che faccia danni. Se non ci fosse lei a metterlo in riga, i suoi due figli si farebbero mettere i piedi in testa e la fattoria andrebbe a rotoli. Ha faticato per mandare avanti tutto da quando suo marito è morto, ma nessuno sembra dargliene atto e i ragazzi sanno solo prenderla in giro per le sue preoccupazioni... Il vecchio Fortune osserva gli scavi del bulldozer nel terreno che un tempo era di sua proprietà. Accanto a lui la nipote Mary di 9 anni. Ben settant’anni di differenza li separano, eppure lui pensa che tra figli e nipoti lei sia quella che più gli somiglia. Sta vendendo la proprietà pezzo a pezzo, con grande sdegno del genero, il padre di Mary, un Pitts mica un Fortune, quindi un vero imbecille. Al vecchio il progresso piace, l’idea che nuove strade, locali, attività vengano tirati su in quelle che un tempo erano le sue terre, lo fa stare bene e ciò che rimane andrà tutto a Mary alla sua morte...
Flannery O’Connor (1925 - 1964) ha scritto 32 racconti e due romanzi, oltre a lettere, recensioni letterarie e saggi, a cavallo tra il 1946 e il 1964. Cattolica fervente, cresciuta a Milledgeville in Georgia, nella fattoria di famiglia da cui si è allontanata solo durante il periodo di studi in Iowa, nelle sue opere c’è tutta l’asprezza della vita rurale. Orfana di padre, morto a causa del lupus eritematoso, lei stessa ha dovuto convivere con la dolorosa diagnosi dall’età di venticinque anni. Nel volume di preghiere che ha iniziato a scrivere nel 1946 chiede a Dio non la cura al suo male, ma di diventare una brava scrittrice. Le viene detto che l’aspettativa di vita nella sua condizione è di cinque anni, lei ne conquista quindici, lottando con tutte le sue forze e scrivendo con tutta la passione che riesce a racimolare, circondata dai suoi amatissimi cento pavoni. Il mal di vivere pervade la vita dei suoi personaggi, che trascinano la loro esistenza in balia di una frustrazione costante, insofferenti nei confronti degli altri membri della famiglia con cui non riescono a comunicare, il conflitto e i sentimenti negativi rendono l’esistenza dolorosa, quando a farlo non è direttamente un malessere fisico reale. Il razzismo è una costante e spesso per i giovani interagire in modo amichevole con i “negri” (termine utilizzato dalla scrittrice e legato al periodo storico e culturale in cui è vissuta, come indicato dalla traduttrice Gaja Cenciarelli nell’introduzione al volume) è un modo per sfidare i pregiudizi e il perbenismo dei genitori. Anche la religione viene spesso messa al centro della storia, col conflitto inevitabile tra credenti e atei, incrollabili nelle reciproche certezze. Sforzarsi per fare la scelta giusta è inutile, perché sarà inevitabilmente un passo falso, un tentativo vano di migliorarsi o migliorare gli altri. L’esito di tali scelte, di queste decisioni apparentemente valide è spesso la morte. La sola che non può essere sconfitta e piomba sugli uomini in modo inaspettato e grottesco.